La costruzione dell'identità e le "maschere" sociali Stampa
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La costruzione dell'identità e le "maschere" sociali

Uno dei trucchi dell’assurdo è di vestirsi da verosimile… Non c’è ora della nostra giornata in cui non ci

sfilino davanti siffatte maschere di carnevale (Gesualdo Bufalino, Il malpensante, 1987).

"C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo,

resti nessuno", l'importante drammaturgo e poeta italiano Luigi Pirandello sintetizza con

queste parole la sua visione della realtà. Il concetto che l’autore tenta costantemente di

mettere in primo piano, all’interno della sua produzione letteraria, è quello della continua

ricerca dell’uomo della propria identità. In particolare, Pirandello sfrutta il suo romanzo

“Uno, nessuno e centomila” per presentarci il tema delle maschere; egli si avvale della

metafora della maschera per spiegarci come l’uomo, nascondendosi dietro di essa, renda

impossibile la conoscenza della sua reale personalità. La maschera è un mezzo attraverso il

quale l'uomo s'illude di conoscersi, ma in realtà non è che un'immagine falsa ed incompleta

di sé, attraverso cui egli non solo non conosce se stesso, ma nemmeno possono conoscerlo gli

altri. Un individuo può, ad

esempio, convincersi di essere un onesto lavoratore ed un buon padre di famiglia, mentre gli

altri possono vedere in lui l'ambizioso cinico e magari pure l'adultero. L'uomo quindi non è

mai se stesso, ma ora è uno, ora è un altro, ora è un altro ancora, per cui è centomila e,

quindi nessuno, come afferma il titolo della celebre opera pirandelliana, proprio perché,

attraverso le forme fisse che risultano dalle convenzioni sociali, si ha solo una parvenza,

un'illusione di conoscenza. Secondo Pirandello, dunque, tutti siamo maschere o personaggi,

e tutti rientriamo perfettamente nella categoria di attori, "inscenando" la nostra stessa vita.

L'autore italiano ci descrive questa realtà in chiave umoristica, facendo una specifica

distinzione fra umorismo e comicità; se, tramite la comicità, si va a cogliere solo lo strato

superficiale di una situazione apparentemente "ridicola", attraverso il lato umoristico ci è

possibile cogliere gli aspetti profondi e reali di quella determinata situazione. L'umorismo

pirandelliano ci viene descritto come "sentimento del contrario", da una riflessione sulla

triste realtà che si potrebbe nascondere dietro una forte risata. Mettiamo ad esempio di

vedere una donna di mezza età vestita, truccata, e con atteggiamenti paragonabili a quelli di

una quattordicenne: se tale situazione ci viene presentata semplicemente in chiave comica, la

reazione che scatenerà sarà ovviamente quella della risata, ma se, invece, la si presenta sotto

un aspetto umoristico, potremmo scoprire, ad esempio, che quella donna lo fa per paura di

perdere il marito più giovane, mettendoci dinanzi ad una realtà molto più profonda,

"mascherata" da semplice circostanza buffa. Ma la maschera non è solo un'immagine

deformata, essa è anche un "carcere senza sbarre", una gabbia da cui l'uomo invano cerca di

evadere nel desiderio di vivere una vita più autentica. Tutta la vicenda umana diventa quindi

un interminabile succedersi d'illusioni e di delusioni, di smentite e di sconfitte, ed i

personaggi pirandelliani si somigliano un po' tutti per questo loro apparire come logorati

dalla propria esperienza. Essi sono come dei "naufraghi della vita", per così dire messi in

scacco dalla vita, caratterizzati come sono da possibilità mancate, da esperienze frustranti, da

qualcosa che insomma è rimasto incompiuto nella loro vita o che li ha profondamente feriti,

condizionandoli per sempre. Il pessimismo di Pirandello appare netto e senza alcuna

possibilità di riscatto; del resto l'impossibilità, da parte dell'uomo, di conoscere se stesso e la

realtà e perfino di comunicare con i propri simili non lascia scampo: al di là dell'illusoria

folgorazione di libertà, ma nient'altro che l'illusione di un istante, non c'è scampo

all'inevitabile sconfitta cui ciascuno è destinato, sconfitta che può cambiare nella forma e

presentarsi via via come pazzia, suicidio o solitudine. È una sconfitta che travolge non solo

l'individuo, ma anche tutti i miti ed i valori della società. Pirandello ha voluto proiettare la

sua concezione dell'uomo e del reale in

una condizione, si può dire, esistenziale, non storica. Si avverte che l'amaro pessimismo

pirandelliano non può non riferirsi alla drammatica ed alienata condizione dell'uomo

contemporaneo, alla penosa condizione d'inautenticità in cui è costretto, in "questa" società,

a vivere i suoi rapporti con gli altri e persino il rapporto con se stesso. L'arte di Pirandello si

configura così come una dura requisitoria contro la vita, ma, ad un'analisi più approfondita,

si rivela anche essere un atto di accusa contro le condizioni di alienazione e di solitudine che

sono tipiche della società borghese contemporanea. Infatti l'uomo dissociato", separato dalla

realtà da un abisso incolmabile che si rivela in ogni personaggio pirandelliano, è l'uomo

alienato, solo, in perenne conflitto con le convenzioni della società borghese, vittima di un

sistema di relazioni sociali che è stato costruito senza che si tenesse conto delle aspirazioni

più genuine e naturali dell'uomo. C'è un eccesso di convenzionalità ed artificiosità nella

società contemporanea, che si è stratificato al di sopra dello spontaneo e naturale

relazionarsi degli uomini, corrompendoli e deformandoli irrimediabilmente e facendo

smarrire il senso di tutto l'esistere. Eppure, se noi cogliamo in ogni personaggio l'esistenza

del conflitto con la realtà, con l'ambiente sociale, a volte anche lacerante, notiamo

ugualmente emergere una carica di vitalità, che si scontra con gli ostacoli reali, con la società,

con il destino. C'è, insomma, una forza in ogni personaggio, che si rivela in bagliori

improvvisi: basti pensare a Mattia Pascal, che ha un momento di euforia quando si scopre

improvvisamente "libero" leggendo sul giornale, di ritorno da Montecarlo con una piccola

fortuna in tasca, la notizia del ritrovamento del “suo cadavere”. Ma è la folgorazione di un

istante, perché poi la vitalità, che improvvisamente si rivela nel personaggio, è destinata a

smarrirsi nella frantumazione dell'esperienza e della realtà. Questo disfacimento della realtà,

che i personaggi pirandelliani scoprono non avere più senso, è anche dello stesso individuo,

che si ritrova a non essere più certo nemmeno della propria identità, frantumata nelle

“maschere" in cui appare, privo di una coerente personalità e preso da angosce e da

ossessioni. Tutto ciò rivela, al di là delle apparenze, l'enorme distanza dell'arte pirandelliana

dai miti del Decadentismo, con lo scrittore agrigentino che è stato uno dei pochi di questo

secolo a non aver trasmesso alcun mito letterario, ma anche dal Verismo e dal Naturalismo,

che, come si sa, la realtà contavano di rappresentarla oggettivamente ed univocamente. Ne

"Il fu Mattia Pascal" viene messa in evidenza la contraddizione insanabile tra "forme" e vita,

ma si fa risaltare altresì la "necessità” della forma: questa, che "uccide” la vita perché

pretende di fermarla, tuttavia consente alla stessa di manifestarsi. Per vivere nella società,

Mattia Pascal ha infatti bisogno di una forma: intravede pure la possibilità di una vita libera

dalle convenzioni e dalle miserie quotidiane, ma va incontro ad uno scacco matto, al

fallimento ed allo smarrimento dell'identità. Se le convenzioni sociali sono insopportabili e

costringono ad una vita inautentica, tuttavia esse sono indispensabili a far manifestare la

vita, al punto che, al di fuori di esse, non c'è che la "morte sociale”. Il romanzo sottolinea

anche l'inutilità della ribellione, nella ricerca vana di una verità e di un'identità che sono

impossibili. L'uomo può avere la folgorazione, dovuta al caso, d'intravedere uno spiraglio di

libertà; ma, per l'appunto, si tratta solo dell'entusiasmo di un momento: dopo aver

assaporato il gusto della libertà, per un istante di felicità e d'euforia che la benevolenza del

caso gli concede, l'individuo è inevitabilmente destinato alla sconfitta. Con Vitangelo

Moscarda, protagonista di “Uno, nessuno e centomila”, si chiude poi la parabola avviata da

Mattia Pascal. La scomposizione della vita è completa: non è la "morte sociale" di Mattia

Pascal rimasta fuori da ogni forma, bensì lo scioglimento di ogni forma nel fluire

interminabile della vita. Come ci dimostra Pirandello, e ci ribadisce il drammaturgo

britannico Oscar Wilde nella seguente citazione, "è un vero peccato imparare le lezioni della

vita solo quando non ci servono più". Ed è sicuramente un vero peccato sprecare le occasioni

che ci possono permettere di vivere a pieno la vita a causa di queste "maschere" sociali di cui

ci parla tanto Luigi Pirandello, maschere che altro non sono se non il frutto del paradossale

bisogno di integrazione presente in ciascun individuo. Concludendo sulla scia del pensiero

pirandelliano, è possibile paragonare la nostra vita sociale ad un immenso palcoscenico, che

ci permette di mostrarci agli altri nel modo in cui ci è più conveniente, e la nostra vita privata

ad un backstage, in cui ci è concesso di essere maggiormente noi stessi, ma mostriamo

comunque la tendenza a "mascherarci". Paragonando dunque la nostra vita ad uno

spettacolo, è possibile riferirsi al fatto che, chi non sa come agire sul palcoscenico,

rappresenta una minaccia per tutto il cast e viene escluso di conseguenza. Ed è questo che ci

spinge a voler interpretare al meglio il ruolo che ci viene assegnato, a voler indossare una

maschera che non ci faccia uscire dalla nostra "comfort zone", che sia una maschera umile o

una particolarmente appariscente. Come ci accennava anche l'antico filosofo greco Socrate,

“la vita è una rappresentazione teatrale”, in cui nessuno vuole far cadere la propria maschera.

Marika Cangiano