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Diritti umani: che ruolo hanno svolto realmente nel corso della storia? PDF Stampa E-mail
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Diritti umani: che ruolo hanno svolto realmente nel corso della storia?

 

Dopo l'unificazione del 1861, l'Italia adottò la forma di governo monarchica. La prima Carta

Costituzionale che l'Italia ebbe fu lo “Statuto Albertino” concesso da Carlo Alberto nel 1848 ai suoi

sudditi. Si trattava di una Costituzione breve che conteneva pochi articoli sui diritti dei cittadini e

flessibile, in quanto poteva essere modificata facilmente tramite leggi ordinarie.

Dal Fascismo alla liberazione

Tra il 1922 e il 1943 il nostro Paese conobbe uno dei periodi più cupi della propria storia: il

fascismo. Sotto il regime totalitario fascista, guidato da Benito Mussolini, furono adottati

gravi provvedimenti normativi, tra cui le leggi fascistissime del 1925, che comportarono la

soppressione delle libertà sindacali e civili, e le leggi razziali del 1938, che introdussero

pesanti discriminazioni verso gli ebrei. Nel 1940 l’Italia fascista entrò in guerra alleandosi

con la Germania di Hitler. Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, contrassegnata

anche dalla lotta interna tra partigiani , sostenitori della liberazione nazionale, e i

repubblichini, che sostenevano l’ occupazione tedesca, nel 1945 si realizzò la liberazione

nazionale, festeggiata ancora oggi il 25 aprile di ogni anno.

Dalla Monarchia alla Repubblica.

Il 2 giugno 1946 si svolse una consultazione popolare per eleggere i 556 membri dell’

Assemblea Costituente, cui fu affidato l’ importantissimo compito di scrivere il testo della

Costituzione. Furono le prime elezioni libere dopo 25 anni e per la prima volta furono

ammesse al voto anche le donne ( suffragio universale: diritto di voto concesso a tutti i

cittadini che abbiano raggiunto una determinata età, senza discriminazione di sesso razza,

fede politica o religiosa e reddito.) Lo stesso giorno gli italiani si pronunciarono, mediante

referendum, sulla scelta tra monarchia e repubblica. Il popolo scelse per lo Stato italiano la

forma Repubblicana. Il 28 giugno del 1946 l’Assemblea Costituente elesse il Capo provvisorio

dello Stato: Enrico De Nicola. La Costituzione fu approvata il 22 dicembre 1947 ed entrò in

vigore il 1° gennaio 1948.

LA STRUTTURA DELLA COSTITUZIONE E I SUOI CARATTERI

La Costituzione è la legge per eccellenza dello Stato. La nostra Costituzione è suddivisa in

due parti, a loro volta scandite in Titoli: La Parte I ( Art 13-54) si occupa dei diritti e dei

doveri dei cittadini; la Parte II si riferisce all’organizzazione dello Stato (art.55-139). La Parte

I è preceduta dai Principi fondamentali ( art.1-12), in cui si sono voluti evidenziare i

fondamenti della Repubblica italiana: la democrazia, il lavoro, l’uguaglianza dei cittadini,

l’organizzazione dello Stato regionale, la libertà religiosa, il rifiuto della guerra. Questi

principi sono detti fondamentali, perché non possono essere mai modificati. Rappresentano

l’essenza della nostra Costituzione. Inoltre il testo Costituzionale si conclude con 18

Disposizioni transitorie e finali predisposte per consentire il passaggio dal regime

monarchico a quello repubblicano.

LA STRUTTURA DELLA COSTITUZIONE

Principi fondamentali Artt (1-12): Esprimono i principi Ispiratori di tutta la Costituzione.

Parte I: diritti e doveri dei cittadini Artt. (13-54) - disciplina i rapporti tra lo Stato e i

cittadini: rapporti civili, etico-sociali , economici e sociali.

Parte II: Ordinamento della Repubblica Artt(55-139)- indica la posizione e le competenze

degli organi statali.

Disposizioni: transitorie e finali (18 articoli) per facilitare il passaggio del vecchio regime al

nuovo.

I Caratteri della nostra Costituzione:

La nostra Costituzione è democratica, popolare e rigida( cioè modificabile solo attraverso la

procedura di revisione costituzionale). È inoltre lunga, per il fatto di dedicare ampio spazio ai

diritti dei cittadini. La parola democrazia deriva dal greco démos Kràtos che significa potere

del popolo, più precisamente governo del popolo, ossia un sistema di governo in cui la

sovranità è esercitata direttamente o indirettamente dal popolo. L’ art. 1 della nostra

Costituzione dice che: “L’ Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene

al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” L'art.2 garantisce la

tutela dei diritti umani che furono fortemente limitati nell’epoca fascista. Esso dice che :” La

Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’ uomo, sia come singolo sia nelle

formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri

inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Quindi viene sottolineata

l’importanza dei diritti umani sia quando sono esercitati in maniera singola sia in maniera

collettiva.

Ad esempio la libertà di manifestare il proprio pensiero è un diritto che appartiene al singolo

individuo, mentre la libertà di riunione e di associazione è un diritto collettivo che riguarda

un insieme di persone. I diritti umani occupano ampio spazio nella nostra Costituzione,

proprio per il fatto che i nostri padri Costituenti hanno subito delle profonde ingiustizie e

discriminazioni al punto tale da vedere annullare l’uomo come “ persona”. I diritti umani

sono quei diritti che nascono con la persona. Essi sono inalienabili e devono essere

riconosciuti a ogni persona per il solo fatto di appartenere al genere umano,

indipendentemente dalle origini, appartenenze o luoghi ove la persona stessa si trova. Con la

dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle nazioni unite, veniva scritto per la prima

volta che esistono diritti di cui ogni essere umano deve poter godere per la sola ragione di

essere al mondo. Fanno parte di questi diritti i diritti fondamentali di dignità, eguaglianza,

libertà, fratellanza, il diritto alla vita, la proibizione della schiavitù, della tortura, il diritto di

uguaglianza di fronte alla legge che viene riconosciuto anche dall’art.3 della nostra

Costituzione che dice: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla

legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di

condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine

economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,

impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i

lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Nel comma 1 dell’ art 3

viene affermato il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, secondo il

criterio della cosiddetta uguaglianza formale. Nel secondo comma si sostiene invece

l’impegno attivo dello Stato a eliminare gli ostacoli che dovessero impedire la realizzazione

pratica del principio di uguaglianza, l’impegno che si traduce nel criterio di uguaglianza

sostanziale. I nostri Costituenti hanno voluto evidenziare, nella struttura dell’ art 3, che lo

Stato non deve limitarsi ad affermare un principio, ma deve anche attuare le condizioni

perché esso sia concretamente realizzato. Ogni persona deve essere rispettata per la propria

identità e individualità senza subire discriminazioni. Fanno parte dei diritti umani anche il

diritto alla libertà di movimento art.16, di pensiero e di espressione art.21 sancisce la libertà

di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione,

diritto all’ istruzione art.34, diritto al lavoro art.4.

L' art 17: stabilisce la Libertà di riunione.

L'art.18 prevede la libertà di associazione.

L'art 36 stabilisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e

alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia

un'esistenza libera e dignitosa.

L' art 32 parla del diritto alla salute e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Infine l'art 34 diritto all'istruzione...l'istruzione è strumento per il pieno sviluppo della

persona umana.

Questi diritti se violati determinano un’ offesa alla stessa essenza umana. I diritti umani sono

senz’altro un utile strumento per educare le nuove generazioni alla comprensione di quei

valori e di quei diritti che sono alla base della convivenza civile. La nostra Repubblica pone al

centro di tutto la tutela di questi diritti, perché la tutela della Persona è anche sinonimo di

crescita del nostro Paese. E’ il trampolino di lancio dello sviluppo di un Paese con la P

maiuscola. I diritti umani, che faticavano a farsi rispettare, furono totalmente calpestati, ad

esempio, nel periodo della prima rivoluzione industriale (1760-1830 circa): da un sistema

basato sull’agricoltura, sull’artigianato e sul commercio, si passò a una programmazione di

tipo industriale caratterizzata dall’uso generalizzato di macchine azionate da energia

meccanica e dall’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate. Una conseguenza del

ribaltamento avvenuto nei programmi, nei metodi e nei processi produttivi fu l’indurimento

dei rapporti tra gli attori produttivi. I salariati furono sempre più spinti in una posizione

subalterna. Nonostante lavorassero per più di dodici ore al giorno, ottenevano un

corrispettivo economico minimo. Gli imprenditori, proprietari delle fabbriche e dei mezzi di

produzione, accentuarono un potere di direzione e di controllo guardando soprattutto

all’incremento del profitto. Gli operai erano sfruttati e la famiglia si trasformò

profondamente perché i salari erano talmente bassi che entrambi i genitori dovevano

lavorare e mettevano al mondo molti figli affinché guadagnassero anch'essi. In molti casi,

però, i bambini che lavoravano nelle fabbriche erano stati abbandonati oppure erano orfani.

Per alcune operazioni, la piccola taglia dei bambini e l’agilità delle loro dita erano il migliore

ausilio per le macchine. La loro debolezza era una garanzia di docilità. Senza fatica li si

poteva ridurre in uno stato di obbedienza passiva cui gli uomini maturi non si lasciavano

facilmente piegare. Nelle prime filande la sorte di questi bambini fu particolarmente penosa.

Alla mercé dei padroni erano sottoposti ad una schiavitù disumana. I capireparto non

permettevano un momento di pausa. Spesso per non fermare le macchine il lavoro

continuava giorno e notte. Gli infortuni erano molto frequenti e la disciplina era selvaggia. Il

loro stato intellettuale e morale non era migliore. Uscivano dalle fabbriche ignoranti e

corrotti. Durante la loro schiavitù non solo non avevano avuto nessun tipo di istruzione, ma

non avevano neppure ricevuto l’educazione professionale necessaria per guadagnarsi da

vivere. Sapevano eseguire soltanto l’operazione alle macchine cui erano stati incatenati per

lunghi anni. Erano, pertanto, condannati a rimanere semplici schiavi legati alla fabbrica

come i servi della gleba alla terra. I salariati (bambini orfani o abbandonati, donne e uomini)

pur di essere inseriti nei cicli produttivi, accettavano condizioni lavorative disumane (orari

estenuanti, vitto scadente, prossimità a sostanze nocive per la salute, punizioni, umiliazioni,

violenze). Chiunque poteva perdere immediatamente il lavoro in caso di malattia (legata in

genere ad ambienti insalubri e alle condizioni lavorative), di gravidanza, di infortuni

(frequenti, per l’assenza di misure protettive). Non esistevano forme di assistenza per chi

diventava invalido (la colpa, all’origine dell’evento, era sempre attribuita al salariato) e per

chi era stato allontanato dal luogo di lavoro. Per i motivi esposti, molti operai cominciarono a

discutere tra loro su possibili forme di auto-tutela in caso di eventi imprevisti e rovinosi

(malattia, infortunio, stato di invalidità, perdita del posto di lavoro). Seguendo un criterio di

concretezza, scelsero di accantonare dei fondi economici da utilizzare al verificarsi di

situazioni avverse. Fu la nascita delle prime società (o società operaie) di mutuo soccorso.

Esse vennero caratterizzate dal fatto che l’iniziativa nasceva all’interno dell’ambiente operaio

e che a gestire la cassa comune erano gli stessi lavoratori. Tali organismi di solidarietà

cominciarono a costituirsi intorno alla seconda metà dell’Ottocento. Il loro compito fu quello

di fornire ai lavoratori uno strumento di difesa. Con riferimento alle società di mutuo

soccorso, Don Bosco era convinto che tali organismi seguivano una logica valida sul piano

delle tutele: il loro fondo comune serviva, infatti, a sostenere il socio colpito all’improvviso da

avversità (infortunio, malattia) mentre era occupato in un lavoro. Ciò era importante perché,

in quel periodo storico, il venir meno di un guadagno era un dramma per le famiglie in

generale, e per quelle numerose in particolare. In tale contesto, nel 1849, il Santo fondò una

società di mutuo soccorso, ne pubblicò il regolamento e ne fissò l’entrata in vigore (1° giugno

1850). Nell’ambito di tutela dei diritti, proprio Don Bosco, in questo periodo, svolse un ruolo

importante: nel suo amore per i ragazzi più poveri ed abbandonati ha anticipato, sotto tanti e

molteplici aspetti, teorie ed opzioni della moderna pedagogia e, in particolare, la visione che

oggi definiamo basata sui diritti umani dei bambini e degli adolescenti. In un contesto in cui

il bambino, il ragazzo “bisognoso” - perché povero, analfabeta, abbandonato, migrante- è

visto come un deviante, una minaccia per la società, cui corrispondono politiche repressive

da parte delle istituzioni, Don Bosco ribalta la visione e l’approccio educativo, e dà fiducia al

ragazzo, crede nelle sue capacità come persona, soggetto del proprio sviluppo e di quello

della comunità in cui vive, inventando e mettendo in pratica un nuovo sistema educativo: il

“Sistema Preventivo”. Don Bosco, oltre a migliorare le condizioni di vita di tali ragazzi sia a

livello “fisico” che “dell’istruzione” si preoccupa anche di donare affetto e cure ai suoi ragazzi,

forte della convinzione che “i ragazzi non devono solo essere amati, ma devono sapere di

essere amati”. I Salesiani oggi sono probabilmente l’agenzia educativa più rappresentativa al

mondo. Da sempre, come parte integrante del loro stesso carisma, i Salesiani di Don Bosco

sono molto sensibili al tema delle violazioni dei diritti umani, in particolare dei bambini e

degli adolescenti. Fondamento dei diritti umani per noi è la dignità di ogni persona, inscritto

nella natura umana; i diritti umani per noi appartengono al disegno di Dio sull’uomo e sulla

donna, “senza distinzione alcuna, di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di

opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di

altra condizione”.

Come detto in precedenza, il tema della violazione dei diritti riguardava anche le donne, le

quali, poi, erano anche sottoposte ad un’emarginazione in tema di diritti civili e politici

rispetto agli uomini. Durante la prima guerra mondiale, però, le donne iniziarono a rivestire

una maggiore importanza sociale, anche perché iniziarono ad assumere la gestione delle

fabbriche e ad essere reclutate in ambito lavorativo (con riconoscimento di importanti diritti

sul lavoro) mentre gli uomini erano al fronte: vennero introdotte scuole e asili nido per

conciliare gli impegni delle operaie, alle quali furono dedicati anche particolari corsi di

alfabetizzazione tenuti durante l’orario lavorativo. Un ruolo importante in materia di

riconoscimento di alcuni importanti diritti alle donne fu rivestito dall’imprenditrice Luisa

Spagnoli la cofondatrice della storica azienda Perugina. Luisa Spagnoli ha anche introdotto

nei suoi stabilimenti il diritto all’allattamento e il congedo retribuito di maternità: per lei le

donne non dovevano mai rinunciare alla propria indipendenza. Alla fine della Prima Guerra

Mondiale, ci si aspettava che alla Perugina le donne venissero licenziate per far posto agli

uomini tornati dal fronte, ma ciò non accadde per una precisa scelta di continuare a investire

sulle lavoratrici. In una recente intervista, la pronipote Nicoletta ha dichiarato: “Le vecchie

maestranze l’adoravano, specie quando negli anni Venti progettò il primo asilo aziendale. Poi

vennero le case per i dipendenti e negli anni perfino la piscina, tutto qui a Santa Lucia dove è

ancora l’headquarter dell’azienda. Faceva beneficenza, regalava i cioccolatini ai poveri,

sistemava gli orfani e faceva studiare le ragazze del popolo”. Luisa fu un imprenditrice

brillante e acuta, attenta al benessere e alla valorizzazione umana e professionale delle

proprie operaie.

Un altro esempio di violazione dei diritti è quello relativo al periodo storico caratterizzato

dall’instaurarsi dei regimi totalitari. Il totalitarismo è un idealtipo usato dagli storici per

definire un tipo di regime politico, affermatosi nel XX secolo al quale possono essere

ricondotti il nazismo, il fascismo e lo stalinismo. Uno Stato totalitario è caratterizzato

soprattutto dal tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita,

imponendo l'assimilazione di un'ideologia: il partito unico che controlla lo Stato non si limita

cioè a imporre delle direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere

della società stessa. Il termine totalitarismo, inoltre, è usato nel linguaggio politico, storico e

filosofico per indicare "la dottrina o la prassi dello stato totalitario", cioè di qualsiasi Stato

intenda ingerirsi nell'intera vita, anche privata, dei suoi cittadini, al punto da identificarsi in

essi o da far identificare essi nello Stato, assumendo tutto il potere ed eliminando ogni

garanzia costituzionale.

Tutti i totalitarismi sono accomunati da schemi quasi ripetitivi nel reprimere i diritti umani:

-repressione di ogni forma di dissenso e organizzazione di una propaganda metodica, che si

esplica attraverso adunanze e rituali di massa finalizzata ad ottenere il consenso: così,

attraverso l’esaltazione delle glorie nazionali italiane (fascismo), esaltazione della perfezione

fisica e spirituale degli ariani (nazismo) o di successi dei regimi comunisti (dittatura di Lenin

o Stalin) vengono a crearsi dei veri e propri culti delle personalità come Hitler, Mussolini,

Lenin o Stalin. Il culto di un solo e unico uomo, capo di tutto e tutti, della persona fisica e

morale.

-accentrare tutto il potere nelle mani di un capo indiscusso, una struttura gerarchica dello

stato basata sulla aderenza alla morale, un inquadramento forzato del popolo nelle

organizzazioni di massa, un rigido controllo su riviste, quotidiani e giornali d’informazione,

ma anche radio, cinema, manifestazioni pubbliche, scuola e cultura, tramite cui controllare la

stessa popolazione. Non c’era più libertà di espressione, di pensiero, di parola. Le lotte che

tanto avevano portato a poche sfumature di democrazia erano diventate un lontano passato.

-iniziative per l’educazione giovanile, sia con una riorganizzazione della scuola, sia istituendo

organizzazioni extrascolastiche dedicate ai più giovani. Si cercava di far leva sui più giovani, i

più “malleabili” e i più “educabili” in modo tale da creare dei perfetti burattini che, con il

tempo, sarebbero stati al servizio “del capo”, dei burattini nelle mani di un burattinaio,

pronti anche a dare la vita per il Duce o per il Führer .

-fondazione di una polizia politica in grado di reprimere con la forza eventuali ribellioni e

quindi divergenze di pensiero rispetto a quello principale. Tali corpi di polizia assunsero

nomi diversi a seconda del regime: in Germania la Gestapo, in Russia la Čeka e in Italia

l'OVRA.

-Istituzione di campi di lavoro forzato in Russia (Gulag) e campi di concentramento in

Germania dove le persone venivano spogliate di ogni loro diritto, a partire dalla dignità di

essere umano e sottoposti a lavori che andavano aldilà della sopportazione umana.

Come ben sappiamo il bene più grande che un essere umano possiede è senza dubbio la

possibilità di agire e di muoversi nel mondo che lo circonda in assoluta autonomia: in una

parola è la “libertà”.

Oggi sembra naturale che ciascuno di noi possa essere libero di esprimere la propria

opinione, di comportarsi come meglio crede, di vivere secondo le proprie convinzioni.

Non è stato sempre così, però.

Con l’entrata in vigore della dittatura molte delle libertà personali subirono delle restrizioni o

addirittura furono negate. Ormai, in un’epoca così cupa, bisognava anche prestare attenzione

a ciò che si diceva, altrimenti si correva il rischio, per gli oppositori politici, di essere uccisi.

Così accadde al politico socialista Giacomo Matteotti il quale, a seguito dell’elezione del

partito Fascista, che, con la violenza, era riuscito ad ottenere la maggioranza, prese la parola

alla Camera e denunciò l’invalidità delle precedenti elezioni. Sapeva di andare incontro alla

morte e infatti affermò: “Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per

me”. Quello fu l’ultimo discorso di Matteotti. Il suo corpo verrà ritrovato per caso una

mattina del 16 agosto del 1924. Il 3 gennaio 1925, Benito Mussolini, allora Presidente del

Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, pronuncia alla Camera dei Deputati il celebre

discorso sul delitto Matteotti. Tale discorso apre la strada alla dittatura, caratterizzata dalla

fine delle libertà civili e dal lancio delle “leggi fascistissime”. Pochi minuti dopo le 15,

l’onorevole Mussolini entra in aula, appare accigliato e scuro in volto (come annota il

cronista del Corriere della Sera). Il duce del fascismo liquida con un cenno della mano gli

applausi dei suoi accoliti e prende posto dietro il banco della presidenza. Quando l’onorevole

Rocco gli cede la parola Benito Mussolini parte all’attacco; quest’uomo messo con le spalle al

muro e creduto ormai spacciato dimostra subito che non scenderà a patti assumendosi la

responsabilità dell’attentato.

Quello di Matteotti è solo un esempio, ma al tempo di Mussolini, con l'emanazione delle leggi

razziali, ai cittadini considerati di razza inferiore vennero negati alcuni diritti che oggi

riteniamo fondamentali: vi erano censura e controllo sistematico della comunicazione e, in

particolare, si impediva la libertà di pensiero, di parola, di stampa, di associazione, di

assemblea, di religione. Contemporaneamente all’epoca del Nazismo di Hitler, erano

soprattutto gli ebrei ad essere sottoposti a diverse restrizioni, come il divieto di usare mezzi

pubblici, di frequentare scuole pubbliche, l’obbligo di consegnare le loro proprietà e di

registrarsi. Si innescava così un meccanismo di autocensura: per sopravvivere si preferiva

rinunciare non solo a esprimere le proprie idee, ma anche a pensarle. Non restava che

omologarsi alla dottrina espressa dal leader al potere.

Chi cercava di resistere, di mantenere la propria individualità e libertà interiore, perdeva

tutto, ma la sua autonomia, sommata alla resistenza di tanti altri nelle stesse condizioni,

minava alle fondamenta un regime dittatoriale, fino al suo crollo finale. Tuttavia, esistono

ancora oggi Paesi del mondo in cui, per motivi politici o religiosi, le persone non possono

manifestare completamente la propria identità. Pensiamo, appunto, alle limitazioni imposte

da alcuni regimi dittatoriali moderni, oppure all’imposizione del velo alle donne o alla

restrizione nei loro comportamenti, tipica dei regimi a fede musulmana.

Altre restrizioni furono imposte anche nella Germania del Fuhrer, ricordata principalmente

per i suoi atteggiamenti razziali. Il razzismo hitleriano non era quello di un europeo che

guardava gli africani dall’alto in basso. Hitler vedeva l’intero pianeta come un’”Africa” e

classificava tutti i popoli, europei compresi, in termini razziali. Su questo punto, come su

parecchi altri, si dimostrò più coerente di molti contemporanei. Il razzismo, dopotutto,

pretendeva di stabilire chi fosse pienamente umano. Le idee di superiorità e inferiorità

razziale si potevano applicare, dunque, a seconda del desiderio e della convenienza. Persino

le società confinanti, che potevano sembrare del tutto simili a quella tedesca, si potevano

definire diverse sul piano razziale. Scrivendo nel suo Mein Kampf (la mia battaglia) che

l’unica opportunità di colonizzazione per la Germania era offerta dall’Europa, era evidente

che Hitler scartava la possibilità di un ritorno in Africa, giudicandola poco realistica. La

ricerca di razze inferiori da dominare non richiedeva lunghi viaggi per mare, poiché erano

presenti anche nell’Europa orientale. Poiché il razzismo era una gerarchia di diritti imposta

al pianeta, si poteva applicare agli europei che vivevano a est della Germania. L’Africa come

luogo geografico era irrecuperabile, l’“Africa” come forma mentale si poteva universalizzare.

L’esperienza nell’Europa dell’Est aveva chiarito che anche i popoli confinanti potevano essere

“neri” e aveva reso plausibile l’idea che anche gli europei volessero dei “padroni” e fossero

disposti a cedere il proprio “spazio”. Dopo la guerra sembrava più comodo prendere in

considerazione un ritorno in Europa che in Africa. Come in altri casi, Hitler portò idee

indistinte a conclusioni di una durezza spietata. Disse che il gruppo culturale più numeroso

del continente – gli slavi, i vicini orientali della Germania – era una razza inferiore. È

importante ricordare il fatto che il nazismo non assunse mai come obiettivi la realizzazione

di una comunità di uomini solidali e in pace tra loro bensì un modello basato sulla

sopraffazione e sullo sfruttamento. La società a cui aspirava Hitler prevedeva la totale

assenza di Ebrei e una schiavizzazione degli Slavi . Essa doveva essere ovviamente priva di

dissenso politico e di qualunque altra possibile forma politica, senza criminalità, malati di

mente, persone affette da sindromi o da deficit fisici,omosessuali, zingari e appartenenti alla

comunità dei testimoni di Geova. Perciò tutte queste categorie di persone vennero rinchiuse

nei lager. Nel 1933 venne aperto il primo campo di concentramento fu quello di Dachau in

seguito alla rapida ascesa politica di Hitler. Furono necessari cinquanta milioni di morti,

sofferenze inaudite, distruzioni mai viste; furono necessarie due bombe atomiche, per

sconfiggere, infine, il delirio nazista e fascista di dominio di un popolo, visto come ‘razza’

eletta superiore, sull’intera umanità. Finalmente nel 1945 Hitler e i suoi alleati si arresero.

Nel 1948, l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani che proclamava: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.

Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di

fratellanza”. L’idea di punire i criminali di guerra nazisti con un vero procedimento

giudiziario iniziò a farsi strada nel settembre 1943, quando a Mosca si riunirono i ministri

degli Esteri delle potenze in guerra contro la Germania. Da più parti, giuristi e intellettuali

iniziarono a raccogliere prove e a elaborare categorie giuridiche di tipo nuovo, per far fronte

all’impegno assunto. In URSS, scrittori ebrei come Il’ja Erenburg e Vasilij Grossman

iniziarono a mettere insieme documenti e testimonianze relative allo sterminio degli ebrei

attuato dai nazisti, con l’intenzione di pubblicare quello che sarebbe stato chiamato Il libro

nero. Il testo, ormai completato, fu tuttavia requisito da Stalin e vide la luce solo negli anni

Novanta, dopo il crollo del comunismo. Maggiore fortuna ebbe il giurista americano Raphael

Lemkin che, fin dal 1944, fu uno dei primi a rendersi conto della novità dei crimini nazisti: a

suo parere, essi erano così particolari, da richiedere una parola del tutto nuova. Lemkin,

pertanto, coniò l’espressione genocidio, a cui diede il seguente significato: «distruzione di

una nazione o di un gruppo etnico» nel suo complesso. Il genocidio, proseguiva Lemkin, «è

diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono

condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri

del gruppo nazionale». Per tutti, le imputazioni erano quattro: cospirazione per condurre

una guerra di aggressione, crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità.

Per l’accusa, il ruolo principale fu assunto dal procuratore americano J.R.H. Jackson, che

spesso si trovò in palese difficoltà a collaborare con il suo collega sovietico Ion Nikitchenko: i

russi, infatti, a Norimberga, cercarono soprattutto di addossare ai tedeschi il crimine della

foresta di Katyn'. A giudicare i nazisti vi era una giuria composta da quattro giudici: uno

statunitense, uno sovietico, uno inglese e uno francese. Vennero inoltre nominati quattro

sostituti dei giudici principali, sempre appartenenti ai medesimi Stati. Alla fine di un

processo complessivamente equo, nel quale agli imputati fu concesso di parlare e di

difendersi, furono emesse undici condanne a morte, eseguite il 16 ottobre 1946; quattro

imputati furono assolti, mentre ai rimanenti furono inflitte lunghe pene detentive.

La questione dei diritti, quindi, è sempre stata un problema fondamentale che riguardava

tanto gli uomini che le donne. Durante la prima guerra mondiale, le donne divennero una

risorsa per il paese, e iniziarono a diffondersi i primi moti di emancipazione da parte di

migliaia di donne, che chiedevano il diritto di voto, e l’affermazione di pari diritti fra i sessi,

ma solo dopo la fine della seconda Guerra Mondiale riuscirono a farsi effettivamente

ascoltare. Infatti, dopo la seconda guerra mondiale, si ebbe il suffragio femminile che indica

il diritto di voto esteso alle donne. Il movimento politico avente come obiettivo quello di

estendere il suffragio alle donne è stato storicamente quello delle suffragette. Le origini

moderne del movimento vanno ricercate nella Francia del XVIII secolo. Tra i primi Paesi a

concedere tale diritto vi furono la Repubblica Corsa, le Isole Pitcairn il Granducato di

Toscana, la Nuova Zelanda. Alcuni di questi stati hanno avuto una breve esistenza e altri non

hanno mai avuto l'indipendenza. Un caso particolare riguarda la Svezia, dove ad alcune

donne fu concesso il diritto di voto durante l'età della libertà (1718-1771) ma tale diritto non

fu esteso a tutte. Il primo stato europeo a riconoscere il suffragio universale fu il Granducato

di Finlandia, con le prime donne elette in parlamento nel 1907. Il diritto di voto alle donne

fu introdotto nella legislazione internazionale nel 1948 quando le Nazioni Unite adottarono

la Dichiarazione universale dei diritti umani. Come stabilito dall'articolo 21:

1) Chiunque ha il diritto di prendere parte al governo del proprio paese, direttamente o

attraverso rappresentanti liberamente scelti. 3) La volontà del popolo dovrà costituire la base

dell'autorità di governo; questa sarà espressa mediante elezioni periodiche e genuine che si

svolgeranno a suffragio universale e paritario e che saranno tenute mediante voto segreto o

mediante procedure libere di voto equivalenti.” Il suffragio femminile viene anche

esplicitamente considerato un diritto sotto la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di

discriminazione della donna, adottata dalle Nazioni Unite nel 1979, sottoscritto da 189

nazioni. In Italia il suffragio femminile non fu introdotto dopo la Prima Guerra Mondiale, ma

sostenuto da attivisti Socialisti e Fascisti e in parte introdotto dal governo di Benito

Mussolini nel 1925. Il 1° febbraio 1945 rappresenta una data che ha cambiato per sempre la

storia della donna in Italia.

Il Decreto n. 23 decretava l’ “Estensione alle donne del diritto di voto”. Il Governo presieduto

da Ivanoe Bonomi con il Decreto numero 23 estese il diritto di voto a tutte le donne

maggiorenni. Da questo erano escluse le minori di 21 anni e le prostitute. Ecco perché il 1

febbraio 1945 rappresenta una data epocale nel percorso verso l’emancipazione femminile.

Nell’aprile del 1945, il governo provvisorio decretò l’emancipazione delle donne, che ne

consentiva la nomina immediata a cariche pubbliche: la prima fu Elena Fischli Dreher. Nelle

elezioni del 2 giugno 1946, tutti gli italiani votarono contemporaneamente per l’Assemblea

costituente e per un referendum che chiedeva al popolo di scegliere per l’Italia la Monarchia

o la Repubblica.

Le elezioni non si svolsero nel Venezia-Giulia e nell’Alto Adige perché erano sotto

l’occupazione alleata. Le donne votarono, così per la prima volta, nelle elezioni

amministrative della primavera del 1946. Il principio, contenuto nel decreto legge del 1945 e

firmato dal Luogotenente generale del Regno, Umberto di Savoia (in seguito Re col nome di

Umberto II di Savoia), venne ripreso successivamente dalla Carta costituzionale italiana.

Essa entrò in vigore nel 1948 dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. Poco dopo

con il Decreto nr. 74 del 10 marzo del 1946, si stabilì anche l’eleggibilità delle donne in

ambito politico e amministrativo. Così per la prima volta nella storia due donne divennero

sindaco. Ada Natali, a Massa Fermana, nelle Marche e Ninetta Bartoli, a Borutta, in

Sardegna. Il 1946 viene ricordato non solo per il suffragio femminile ma per la nuova

Costituzione. La legge necessaria a regolare l'istituto del referendum venne approvata solo

nel 1970, in occasione della legge sul divorzio. Nel 1975 venne promulgata la legge di riforma

del diritto di famiglia e nel 1990 quella sullo sciopero. Fino all'approvazione di una legge del

1984, la Corte costituzionale fu più volte chiamata a regolare i rapporti tra Stato e Chiesa che

erano ancora basati sui dettami dei patti lateranensi. Con l’affermazione della Costituzione

venivano firmate le prime leggi e in particolare quelle che riguardavano il fascismo. La XII

disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana vieta la riorganizzazione del

partito fascista: “E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito

fascista”. (1° gennaio del 1948). La Legge Scelba (20 giugno 1952) stabilisce inoltre

all’articolo 1: “si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o

un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando,

minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la

soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue

istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua

attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o

compie manifestazioni esteriori di carattere fascista” sarebbe stato punito con il carcere:

“Chiunque promuove ed organizza sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito

fascista a norma dell’articolo precedente è punito con la reclusione da tre a dieci anni”(Legge

Scelba art.2).

Apologia del fascismo: “Chiunque, fuori del caso preveduto dall’art. 1, pubblicamente esalta

esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo oppure le finalità’ antidemocratiche proprie

del partito fascista e’ punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire

500.000. La pena è aumentata se il fatto e’ commesso col mezzo della stampa o con altro

mezzo di diffusione o di propaganda”. (Legge Scelba art.4)

Legge Mancino (25 giugno 1993)

Ribadisce e rafforza: “E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo

avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali,

etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o

gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o

dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o

dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con

la reclusione da uno a sei anni”. In particolar modo si pone l’attenzione anche al Saluto

Romano ritenuto ormai illegale.

Il saluto romano, così detto perché in passato fu ritenuto derivare da una tradizione

dell'antica Roma, è una forma di saluto utilizzata in varie parti del mondo nel periodo a

cavallo tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, che prevede il braccio destro

alzato di circa 135 gradi rispetto all'asse verticale del corpo con la palma della mano rivolta

verso il basso e le dita unite. Il saluto romano è noto per essere stato utilizzato dal regime

fascista italiano e dal regime nazista tedesco nella prima metà del Novecento. Questo tipo di

saluto non è da intendere come la salutatio militaris, ovvero il saluto militare codificato

nell'antica Roma, che invece sembra essere del tutto analogo al saluto militare moderno,

ritenuto erroneamente un'invenzione medioevale. Il saluto romano d'età contemporanea

venne usato per la prima volta in Italia dai legionari fiumani di Gabriele D'Annunzio,

consistendo nel presentare il pugnale sguainato. Esso si salda con la tradizione classica per la

volontà fascista di rappresentare una continuità con Roma antica. Nell'Italia fascista Achille

Starace, segretario del PNF, promosse una campagna a favore del saluto romano, affinché

sostituisse completamente la stretta di mano ritenuta "borghese" e poco igienica. Mussolini

rimase così folgorato da questo tipo di saluto da farlo diventare uno dei simboli più

importanti del partito fascista e che, senza vere basi storiche, si è poi diffuso nell’arte, nel

teatro e nella politica. Ad oggi diciamo stop al saluto romano che rimanda all’ideologia

fascista. Il gesto, che evoca valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza è reato,

anche se non é accompagnato da alcuna violenza: perché la legge è finalizzata ad una tutela

preventiva, tipica dei reati di pericolo.

I diritti dell’uomo hanno fatto irruzione nello scenario delle relazioni internazionali con la

forza prorompente di un fenomeno etico e politico capace di mobilitazione diffusa ed hanno

introdotto grandi novità di sostanza e di metodo di cui i governi, le diplomazie ed i

parlamenti devono tener conto. È anche il caso della Guerra Fredda ('cold war'), espressione

con cui si indica la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi

intorno al 1947, tra le due potenze principali emerse vincitrici dalla Seconda guerra

mondiale: gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. La lunga e spesso tragica campagna dei

dissidenti in Unione Sovietica è stata animata da una forte rivendicazione dei diritti civili e

politici in un sistema totalitario; persino i sommovimenti del Sessantotto europeo ed

americano ne hanno contenuto una componente, modulata peraltro nella contestazione di

sistemi democratici. Si trattò sostanzialmente della contrapposizione tra due grandi

ideologie politico-economiche: la democrazia-capitalista da una parte e il socialismo

reale-comunismo dall'altro. Un ruolo fondamentale fu svolto dal famoso Muro di Berlino, in

Germania, che doveva impedire la fluidità della frontiera tra Germania est, a controllo

sovietico, e Germania ovest, a influenza americana. Il muro creava una barriera

tendenzialmente invalicabile, al centro di controversie fin dalla fine degli anni '60. Per

evitare le diserzioni fu imposto l'impiego costante di due o tre militari per ogni postazione; in

questo modo, nell'eventualità di un tentativo di fuga di una guardia, i compagni di pattuglia

avevano la consegna di sparare al fuggitivo. Anche lo svolgimento ordinario delle funzioni di

controllo era sottoposto a minacce e intimidazioni da parte della polizia politica della DDR:

nel caso in cui un cecchino avesse mancato un obiettivo, avrebbe subito pesanti ritorsioni che

potevano estendersi anche ai familiari. Molte e frequenti erano le delazioni anche da parte di

civili (i grenzhelfer), che venivano arruolati in ausilio alle truppe di frontiera in gruppi locali

che potevano effettuare arresti di cittadini che tentavano la fuga. Furono oltre 8.000 i

tentativi di fuga oltre il muro tra il 1961 e il 1989. Le vittime della Polizia di frontiera della

DDR furono quasi un migliaio lungo tutte le zone di ondine compreso il Mar Baltico. La

costruzione del Muro di Berlino divenne il simbolo di un’epoca molto buia e drammatica di

divisione e contrapposizione segnata dalla Guerra Fredda e da molte altre spaventose guerre,

da una terrificante corsa al riarmo e da vastissime violazioni dei diritti umani ed il suo

abbattimento fu reso possibile anche dall’impegno lungo e faticoso di tante persone e

movimenti che, per lungo tempo, hanno avuto il coraggio di lottare per la libertà, la pace e il

rispetto dei diritti umani. In quest'arco di tempo accadde quello che l’economista Albert

Hirschman chiamò autosovversione: l’implosione di un regime, che non ferma il

cambiamento ma lo accetta riconoscendo di non avere più nessuna autorità, di fronte alla

protesta generalizzata. Il crollo del muro non portò a scontri violenti, e cambiò

completamente l’assetto dell’Europa. Qualcuno, come il politologo Francis Fukuyama, arrivò

a parlare di “fine della storia”, prevedendo un'epoca senza conflitti, senza contraddizioni,

dominata da una lenta e banale crescita economica; è una delle immagini più illusorie e

sbagliate di quello che sarà il futuro, perché nonostante i profondi cambiamenti seguiti a

quell’accadimento epocale, altri 62 muri e barriere sono stati eretti nel mondo dividendo

popoli e nazioni e altri sono ancora in costruzione anche in Europa. Insieme ai muri di

cemento armato e di filo spinato, si andarono innalzando tanti altri muri invisibili: i muri

della miseria e delle disuguaglianze, della violenza e dell’esclusione sociale, dell’antagonismo

infinito e della competizione selvaggia, della paura e dell’indifferenza, del pregiudizio,

dell’intolleranza e dell’odio.

Quando sparirono i confini, dopo il 1989, si arrivò ad una vera e propria colonizzazione della

finanza occidentale e delle aziende dell’est. Gli apparati burocratici che gestivano le

economie pianificate diventarono una nuova classe dirigente, a volte intrallazzata con la

finanza occidentale e pronta a sfruttare i cambiamenti senza più nessun controllo. Sorse

all’improvviso, senza fasi preparatorie, una società basata sull'individualismo e sulla

concorrenza. Sviluppo e sottosviluppo coesistono ancora oggi in quello che è il Paese più

ricco d’Europa, dove nell’89 un mondo è stato cancellato senza una fase di transizione. In

Germania assistiamo ad una modernizzazione estrema delle aree più sfruttabili

turisticamente, con scarsi benefici per i residenti, mentre larghe aree rimangono depresse,

con sacche di arretratezza e povertà, dove si parla più il russo che l’inglese e dove lo spirito di

competizione degli abitanti è molto più basso rispetto ai cittadini dell'ovest.

Uno dei risultati di questa integrazione avvenuta male è il preoccupante incremento di partiti

di estrema destra, talvolta con evidenti simpatie neonaziste. A distanza di decenni da questi

fatti, la spinta all’affermazione dei diritti umani radicata nelle minoranze scompare presto

perché sembra più importante adeguarsi allo stato di diritto occidentale. Ci sono stati dei

passi avanti sicuramente con l’introduzione formale di leggi ben fatte, ma che non sono state

sufficienti; per esempio, le leggi che riguardano i Rom in Romania sono molto avanzate ma

solo in minima parte consentono di difenderne i diritti. Al di là dei casi specifici però,

l’adesione formale alle leggi fa perdere la spinta a combattere per i diritti, contro

l’autoritarismo: forse è anche vero che queste battaglie avrebbero bisogno, oggi, di un nuovo

salto di qualità. Attualmente, nel mondo globalizzato, siamo davanti ad un conflitto tra due

diritti fondamentali, lavoro e salute, e siamo chiamati a scegliere uno dei due: non esiste un

meccanismo capace di salvare entrambi.

Un personaggio che nella storia si è fortemente battuto per i diritti degli emarginati, degli

oppressi, degli ultimi, fu un'altra grande donna, che senza manifestazioni e senza proteste,

chiedeva, attraverso il suo operato, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (tra i quali

vivere e morire in maniera dignitosa), ovvero Madre Teresa di Calcutta. Il suo pensiero, la

sua vocazione, il suo modello di vita, la sua profonda spiritualità, si caratterizzano per la

difesa dei Diritti Umani e per la passione e l’amore per gli altri, specialmente quando gli altri

sono i più deboli, i più disagiati, i più emarginati, i poveri. Il suo credo fu sicuramente

dedicarsi agli altri ed essere a servizio degli altri, con umiltà e mitezza perché, “senza la

mitezza non potremo essere mai capaci di accettare gli altri, nè amarli come Lui ama noi (…).

Abbiamo bisogno di mitezza e di umiltà per poter mangiare il Pane della Vita. Abbiamo

bisogno di mitezza e di umiltà se vogliamo nutrirLo all'affamato”.

Ha sempre difeso il rispetto per la dignità umana che va riconosciuta e rispettata sin dal

momento del concepimento. Madre Teresa dava importanza alla carità spirituale, ma

essenziale, a Suo avviso, era anche la carità corporale. Un uomo che non sa di che nutrirsi,

povero al punto di non avere niente per sostenere il suo corpo, e quindi per sostenere la sua

esistenza, è un uomo brutalmente privato dell’avvenire, è un uomo già privato della vita

stessa. Ecco perché i valori economici devono essere considerati nella misura in cui

consentono di condurre una vita dignitosa e non devono essere esclusivi o superiori agli altri.

L’11 dicembre di 36 anni fa, ad Oslo, viene consegnato a Madre Teresa di Calcutta il premio

Nobel per la Pace; i motivi dell’assegnazione del premio alla fondatrice della Missionarie

della

Carità risiedono nel suo impegno tra i poveri e nel suo rispetto per il valore e la dignità di

ogni singola persona e “per il lavoro compiuto nella lotta per vincere la povertà e la miseria,

che costituiscono anche una minaccia per la pace”

Coloro che però ebbero, e tuttora hanno, problemi per il rispetto dei diritti sono i membri

della popolazione afroamericana, che per il colore della loro pelle, più volte furono, e sono,

vittime di episodi di razzismo. Si ricordi, ad esempio, il caso di George Stinney Jr., il più

giovane condannato a morte negli Stati Uniti. Aveva appena quattordici anni quando è stato

giustiziato il 16 giugno del 1944 per un duplice omicidio che non aveva commesso. Era stato

accusato di aver ucciso due ragazze bianche, i cui corpi sono stati trovati vicino alla sua

abitazione, quell'unica prova, essere nero vicino a due cadaveri, è bastata per fare entrare

quel bambino dentro un incubo. Dopo un processo di due ore, una giuria tutta bianca ha

impiegato solo 10 minuti per condannarlo. Settant’anni dopo un giudice in South Carolina ha

dimostrato la sua innocenza mostrando che Stinney non avrebbe potuto usare la presunta

arma del delitto per uccidere le ragazze. George era innocente. Il ragazzo è stato giustiziato

sulla sedia elettrica con una scarica da 5300 VOLT, non riuscendo a smettere di piangere

neanche un secondo prima dell'esecuzione: il boia attiva ben tre volte il meccanismo, e dopo

4 minuti di agonia George esala l’ultimo respiro. Questo è un esempio eclatante di come gli

uomini sappiano essere crudeli nei confronti dei propri simili calpestandone i diritti.

Importante a tal proposito è la figura del pastore protestante Martin Luther King,

unanimemente riconosciuto "apostolo instancabile della resistenza non violenta", "eroe e

paladino dei reietti e degli emarginati", "redentore dalla faccia negra", che si è sempre

esposto in prima linea affinché fosse abbattuto nella realtà americana degli anni cinquanta e

sessanta ogni sorta di pregiudizio etnico. Ha predicato l'ottimismo creativo dell'amore e della

resistenza non violenta, come la più sicura alternativa sia alla rassegnazione passiva sia alla

reazione violenta preferita da altri gruppi di colore. Estremamente celebre è rimasto il

discorso che Martin Luther King tenne il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la

libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington e nel quale pronunciò più volte la fatidica

frase I have a dream ("Io ho un sogno") che sottintendeva l’attesa che egli coltivava, assieme

a molte altre persone, perché ogni uomo venisse riconosciuto uguale a ogni altro, con gli

stessi diritti e le stesse prerogative, proprio negli anni in cui i tempi stavano cambiando.

Anche per questo, Martin, molte volte fu soggetto ad aggressioni e a offese molto gravi, ma

non per questo si arrese, continuando a professare ciò in cui credeva e sperava.

Un ultimo esempio riguardante la forza dei diritti umani e le sue oppressioni, che verrà

trattato in questo storytelling, sono i movimenti pacifisti sviluppatasi dopo la guerra del

Vietnam. La guerra del Vietnam ha rappresentato indubbiamente una delle pagine più

oscure della storia statunitense. Terminata la Seconda Guerra mondiale, gli Stati vincitori si

adoperarono per costituire una disciplina dei diritti umani che perseguisse l’obiettivo di non

far più rivivere all’umanità la terribile esperienza dell’Olocausto. Non solo: sul piano

geopolitico si delineò una polarizzazione del mondo canalizzata verso due superpotenze,

Stati Uniti e Unione Sovietica, che da quel momento in poi avrebbero dominato il panorama

internazionale fino alla fine degli anni ’80.

La guerra in Vietnam scoppiò perché fino alla Seconda Guerra Mondiale, dell’impero

coloniale francese, ma con la decolonizzazione, prese piede un sentito movimento

indipendentista, che diede luogo dal 1945 al 1954 a quella ad oggi conosciuta come la guerra

d’Indocina, combattuta da un lato dall’esercito francese appoggiato dagli Stati Uniti (che

aiutavano il vietnam del Sud) e dall’altro dai militanti del movimento Vietminh, legato alle

potenze comuniste cinese e sovietica e guidato da Ho Chi Minh (appoggiavano il vietnam del

Nord). Ciò che accadde in Vietnam fu un vero e proprio Olocausto: dall’Offensiva del Tet alla

ben più famosa strage di MyLai, l’obiettivo americano non fu mai quello di appoggiare il

Vietnam del Sud nel contrastare il Vietnam del Nord (filosovietico), ma quello di portare

l’intero territorio sotto il controllo del blocco Occidentale. A qualsiasi costo, uno degli

elementi decisivi per le sorti del conflitto si rivelò essere proprio la diffusione della

televisione nelle case degli americani, benché nei primi anni quello stesso mezzo di

comunicazione riuscì a creare un contesto sociale favorevole al governo. L’anno in cui si

ruppe la sinergia tra opinione pubblica ed establishment governativa fu il 1968. Ai giornalisti

venne concessa una grande libertà di movimento nel campo di battaglia e grazie a ciò

iniziarono a diffondersi numerose testimonianze sul reale andamento della guerra. I giovani

americani scesero in piazza, il ’68 fu rivoluzionario, all’insegna del pacifismo e della

rivendicazione dei diritti umani.

I MOVIMENTI PACIFISTI

L'opposizione alla guerra del Vietnam fu un movimento sociale contro la partecipazione degli

Stati Uniti nella guerra del Vietnam, iniziata con manifestazioni nel 1964 e crebbe negli anni

successivi. Le persone della società americana si divisero tra coloro che sostenevano il

coinvolgimento nella guerra, e quelli che volevano la pace.

Molte persone nel movimento per la pace, erano studenti, madri, o hippy, ma c'era anche il

coinvolgimento di molti altri gruppi, tra cui educatori, sacerdoti, docenti universitari,

giornalisti, avvocati, medici, militari veterani e americani comuni. Le espressioni

dell'opposizione andavano da manifestazioni pacifiche nonviolente a radicali manifestazioni

violente. La guerra del Vietnam ha rappresentato uno spartiacque decisivo che diede la

misura dello strappo generazionale avvenuto nella società degli anni Sessanta. Nel corso del

biennio 1967 e 1968, infatti, Il Vietnam può essere considerato il vero catalizzatore della

rivolta giovanile occidentale: la tenace resistenza del popolo vietnamita al colosso militare

americano aveva dimostrato che l’organizzazione politica poteva sconfiggere la potenza

tecnologica.

In Italia come in tutto il mondo si susseguirono moltissime manifestazioni, assemblee

studentesche, fiaccolate, raduni nelle fabbriche, veglie di protesta davanti ai consolati USA,

roghi di bandiere americane al grido di “Yankee go home” per protestare contro questa

guerra. Mentre Noam Chomsky nella rivista “New York Review of Books” scriveva: «occorre

prendere misure illegali per opporsi ad un governo indecente». Anche il premio Nobel per la

pace Martin Luther King, nell’aprile di quello stesso anno a New York, si schierò

apertamente contro la guerra definendola «il vero nemico dei poveri». Nella Dichiarazione di

Indipendenza dalla guerra del Vietnam egli diceva polemicamente che in quel conflitto vi era

il paradosso di un’intera nazione: gli Stati Uniti dicevano di essere impegnati in una guerra

per la libertà del popolo vietnamita quando i neri d’America, ad Harlem così come in

Georgia, non godevano di nessun diritto. Negli USA, in particolare, la protesta stava

assumendo proporzioni di giorno in giorno più eclatanti: secondo «Mondo Beat» ben 40

mila giovani americani nel ’67 si erano rifugiati in Canada per sottrarsi alla condanna a 5

anni conseguenza del rifiuto a combattere nel Vietnam. Si stava verificando, una

«rivoluzione delle coscienze» che portava le giovani generazioni a condannare qualsiasi tipo

di guerra, «con l’implicito rifiuto della giustificazione di giusta o santa, perché la guerra è

sempre ingiusta e non è mai santa».

‹I care›: è il motto irriducibile dei giovani americani migliori. ‹Me ne importa, mi sta a

cuore›. È il contrario esatto del motto fascista ‹Me ne frego› […].

L’obbedienza non è più una virtù. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi son tutti

sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni,

che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna

che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. Una rivolta pacifista che si è distinta

nella storia fu portata avanti dagli Chicago seven. Gli Chicago Seven sono stati un gruppo di

attivisti (Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Tom Hayden, Rennie Davis, John

Froines e Lee Weiner) accusati dal governo federale degli Stati Uniti di associazione a

delinquere, istigazione alla sommossa e altri reati relativi agli scontri tra manifestanti e

polizia avvenuti a Chicago durante la Convention del Partito Democratico del 1968. Il gruppo

è anche noto come Chicago Eight, visto che per un breve periodo un ottavo uomo, il leader

dell'organizzazione rivoluzionaria nota con il nome delle Pantere Nere, Bobby Seale, fu

accusato e mandato a processo insieme agli altri. Il processo ai Chicago Seven, durato dal

settembre 1969 al febbraio 1970, si trovò al centro di un acceso dibattito nazionale a causa

della sua presunta natura di processo farsa motivato dal fatto che gli imputati ricoprissero

ruoli di spicco all'interno del movimento controculturale e di opposizione alla guerra del

Vietnam più che da una loro reale colpevolezza o complicità. Al termine del processo, cinque

imputati vennero riconosciuti colpevoli di istigazione alla sommossa, mentre vennero tutti

assolti dall'accusa di associazione a delinquere; inoltre, il giudice condannò tutti gli imputati

e il loro avvocato William Kunstler a pene severe per oltraggio alla corte. Tuttavia, tali accuse

furono successivamente revocate e, nel 1972, la corte d'appello prosciolse gli imputati da

tutte le accuse.

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Pantere Nere è un Movimento rivoluzionario afroamericano, fondato nell’ottobre 1966 ad

Oakland, California, da Huey Percy Newton e B. Seale. Interpreti della ribellione degli

Afroamericani e influenzati dal marxismo e dalla predicazione di intellettuali come Malcolm

X, i militanti non rifuggirono dall’uso di mezzi violenti, ai quali però rinunciarono verso la

metà degli anni 1970 Alla fine degli anni sessanta del XX secolo, l'organizzazione divenne

famosa nella scena politica nazionale statunitense ottenendo anche una notevole

considerazione all'estero, fino a quando, a causa di divisioni interne e repressione da parte

del governo, cominciò la sua parabola discendente.

Nel 1989 è nato a Dallas, in Texas, il New Black Panther Party, ma come hanno tenuto più

volte a ribadire ex membri delle Pantere Nere, il nuovo partito sarebbe illegittimo e "non è il

nuovo partito delle Pantere Nere". Il simbolo, la pantera nera, deriva dalla preesistente

"Organizzazione per la libertà della contea di Lowndes", in seno alla quale i membri del

futuro Black Panther Party iniziarono a organizzarsi politicamente. L'obiettivo dei due

fondatori era di sviluppare ulteriormente il movimento di liberazione degli afroamericani

fino ad allora pesantemente discriminati, socialmente, politicamente e legislativamente. La

peculiarità delle Pantere fu quella di rifiutare le istanze nonviolente e integrazioniste di King,

a loro avviso inefficaci e addirittura motivate da una nascosta collusione con le strutture di

potere dei bianchi. Al principio della nonviolenza le Pantere sostituirono quello

dell'autodifesa (self-defence) come strumento di lotta fondamentale. In particolare,

cominciarono a praticare il "Patrolling". Questo consisteva nel pattugliare, tenendo sempre le

armi in bella vista, le azioni della polizia, in modo da condizionarne l'operato, impedendo che

questa abusasse del suo potere contro le persone di colore che fermava. In risposta al

fenomeno delle ronde armate, nel maggio del 1967, l’allora governatore della California

Ronald Reagan firmò una legge, il Mulford Act, che limitava il porto d’armi in pubblico di

privati cittadini. Quella legge rappresentò l’occasione che molti attivisti aspettavano per il

lancio dell’organizzazione a livello nazionale: ripresi da telecamere e fotografi, una ventina di

Pantere entrarono, armi in pugno, nell’assemblea legislativa di Sacramento, capitale dello

stato, per protestare contro la decisione del governo. Il successo mediatico fu immediato:

tutti i giornali del paese iniziarono a parlare di questo gruppo di afro-americani della

California che si vestiva di nero, si professava marxista leninista, parlava di rivoluzione e si

ispirava a Malcolm X. Poco dopo, nel settembre del 1967, Newton venne arrestato con

l’accusa di aver ucciso un poliziotto. https://www.youtube.com/watch?v=Rb4wpPC4K2s

L’arresto della mente delle Pantere, che avrebbe potuto compromettere la vita stessa del

gruppo, ebbe invece l’effetto di creare un movimento interrazziale per la sua liberazione (al

quale parteciparono numerosi intellettuali e attori, tra cui Marlon Brando) che amplificò

ancora di più il messaggio del Black panther party. Molte sedi nacquero in tutti i ghetti delle

grandi città e a ronde e manifestazioni andarono sempre di più affiancandosi programmi di

assistenza sociale – dalla distribuzione di pasti caldi ai bambini, all’assistenza sanitaria

gratuita – che furono il vero canale di dialogo con le comunità nere. Programmi, tra l’altro,

gestiti quasi interamente da donne, il Black panther party non aveva sovvertito il sistema,

non aveva ribaltato il capitalismo e neppure aveva sconfitto la white supremacy, ma fu

capace di infondere in una generazione di giovani neri un senso di orgoglio razziale come

poche organizzazioni erano riuscite a fare prima e a contribuire a una stagione di impegno

politico militante afro-americano che avrebbe caratterizzato i decenni successivi.il nuovo

movimento moderno del Black lives matter che si batte per i diritti dei neri ha infatti molte

radici nel black panther party . Le Pantere Nere erano ampiamente conosciute per

l'immagine dei loro membri afroamericani, indossavano giacche di pelle e portavano armi in

pubblico. Quell'immagine dell'uomo di colore armato ha suscitato terrore nella comunità

bianca e nell'establishment politico del paese. Sebbene le pantere nere non siano mai state

responsabili di alcun atto di violenza di massa, i loro membri sono stati considerati

"terroristi" dallo stato, in particolare dalle forze di polizia. Le pantere nere hanno lottato per

l'emancipazione dalla classe lavoratrice e l'uguaglianza economica, sociale e politica "reale"

indipendentemente dal genere o dal colore. L'uso delle armi come parte integrante della loro

immagine non era volta a minacciare gli altri o promuovere la violenza contro lo Stato, ma

piuttosto un simbolo dei suoi oppressori che stavano cooptando come meccanismo di difesa

e potere politico.

Tuttavia, quell'immagine di afroamericani armati distrasse dalle idee rivoluzionarie e

altamente progressiste della loro piattaforma politica. Idee e iniziative che in seguito hanno

trasformato la vita di milioni di persone nel paese in modo molto positivo. Ad esempio, sono

state le Pantere Nere che hanno avviato il programma di colazione gratuita per i bambini

della comunità, per aiutare i più bisognosi.

Successivamente, tale concetto è stato incorporato a livello nazionale nelle scuole pubbliche e

nei centri comunitari, che fino ad oggi hanno offerto la colazione gratuita a tutti gli studenti

che ne hanno bisogno. Le pantere nere hanno anche promosso il concetto di polizia

comunale: un corpo integrato nella comunità, che lo conosce perché è una sua derivazione.

L'idea era di trasformare un settore della polizia tradizionale in servitori di protezione per la

comunità, invece di essere nemici della comunità, che presumibilmente stavano

proteggendo. Questo concetto è stato rivitalizzato oggi dal movimento Black Lives Matters,

che chiede di riformare e rifinanziare la polizia per smettere di attaccare e perseguitare le

comunità che dovrebbero proteggere.

Un altro concetto fondamentale delle Black Panthers presenti oggi a Black Lives Matter è la

loro richiesta di fermare immediatamente la brutalità della polizia e l'omicidio degli

afro-americani. Questa è stata la scintilla che ha dato alle fiamme le recenti marce ed è

diventato un punto di discussione principale per molti leader e rappresentanti politici a

livello nazionale. Perfino repubblicani e democratici concordano con l'idea di riformare le

forze dell'ordine per porre fine alla vecchia cultura della brutalità contro gli afro-americani e

all'impunità di cui godono gli autori.cronache che hanno scosso e continuano a scuotere gli

animi di rivolta sono vicende come la simbolo della rinascita del movimento, ovvero

l’assasinio di George Floyd. Si scopre che George Floyd non era armato, non era violento,

non era nemmeno accusato o sospettato di un crimine. Lo stavano cercando

presumibilmente usando una banconota da venti dollari falsa in un negozio. Quindi è stato

assassinato, e crudelmente e brutalmente. Il suo unico crimine era il colore della sua pelle.

Il video di quel poliziotto bianco, Derek Chauvin, che uccide impunemente Floyd, pur

sapendo che è stato filmato da un giovane testimone, è emblematico del razzismo reale e

sistemico che continua ad essere presente in ogni aspetto della società americana. La stessa

Costituzione americana che ha dichiarato che gli africani erano solo i tre quinti di un essere

umano rimane stampata.

Naturalmente, gli emendamenti 13, 14 e 15, che hanno abolito la schiavitù, riconosciuto

l'uguaglianza e la cittadinanza di ogni persona nata negli Stati Uniti e garantito il voto per gli

afro-americani, hanno cercato di porre rimedio al razzismo profondamente inquadrato nella

Magna Carta.Tuttavia, persistono discriminazioni e disumanizzazione della comunità

afroamericana e quei diritti .Sono passati molti decenni da quel 28 Agosto del 1963 giorno in

cui Martin Luther King pronunciò il discorso I have a dream. https://youtu.be/vP4iY1TtS3s

E poco è cambiato negli USA e nel mondo. Il “sogno” di molti americani che vivono nel paese

che si professa “paladino dei diritti umani” si è rivelato un incubo. Forse solo una cosa è

davvero cambiata: oggi non c’è più un leader come Martin Luther King in grado di trascinare

le folle e di lasciare un segno nella storia. concessi negli emendamenti costituzionali non

sono ancora rispettati in molte parti del paese.

Tenendo in considerazione anche solo gli ultimi anni, sono molti i casi di giovani ragazzi di

origine africana uccisi, in modo più o meno accidentale, dalla polizia. L’ultimo in termini di

tempo è quello di Adil (il suo cognome non è stato reso noto), diciannovenne di origini

marocchine, travolto da un’auto della polizia dopo aver tentato di sfuggire a un controllo di

routine durante il lockdown, ad Anderlecht. In seguito all’incidente mortale è stata aperta

un’inchiesta per omicidio colposo. Sempre in Belgio, nell’agosto del 2019, un diciassettenne

di origini marocchine, Mehdi Bouda, venne investito da una volante dopo essere fuggito da

un posto di blocco. Nel 2015, Mitch Henriquez, un turista proveniente da Aruba, durante una

rissa nata a un concerto a L’Aia, Paesi Bassi, venne immobilizzato a terra da un poliziotto.

Henriquez perse i sensi e morì qualche giorno dopo in ospedale. L’autopsia dichiarò la morte

per asfissia. Dei cinque poliziotti coinvolti nell’arresto, due vennero inizialmente condannati:

uno fu scagionato in appello e l’altro venne sospeso dal servizio per sei mesi.

La morte di Adama Traoré ha, invece, provocato un’ondata di manifestazioni e indignazione

in Francia, nel 2016. Adama morì mentre era sotto custodia della polizia, dopo aver tentato

di sfuggire a un controllo d’identità. Dopo che la polizia aveva informato la famiglia della

morte avvenuta per arresto cardiaco e dopo aver cercato di far rimpatriare frettolosamente la

salma del giovane in Mali, la famiglia Traoré riuscì a ottenere il permesso per una seconda

autopsia che constatò la morte avvenuta per asfissia. Dopo quattro anni di indagini, i

responsabili ancora non sono stati condannati.

Se, invece, si prendono in considerazione tutti quei casi in cui la polizia, senza ragioni

oggettive, svolge attività di controllo, sorveglianza o investigazione in base all’aspetto di una

persona o per il luogo in cui questa vive, il problema diventa ancor più importante. Si parla

di racial profiling quando le forze dell’ordine usano le categorie della razza, la religione,

l’etnia o la nazionalità di origine per valutare chi potrebbe essere coinvolto in attività

criminali (e non quelle che dovrebbero essere usate, come sospetti ragionevoli, evidenze

oggettive o comportamenti individuali).

Diversi studi condotti negli ultimi dieci anni dimostrano che il fenomeno del racial profiling

è particolarmente radicato nel modus operandi delle forze dell’ordine europee. La Brutalità

poliziesca è un'espressione utilizzata per indicare una serie di comportamenti connotati da

violenza, repressione, abuso di potere, corruzione, abusi sessuali, uso eccessivo della forza,

profilo razziale, intimidazione ,purtroppo il codice penale non prevede un vero e proprio

reato di abuso d’autorità. L’abuso di autorità è piuttosto una circostanza determinante

affinché, al ricorrere di altre condizioni, possa scattare un determinato reato.

Di recente Le Monde, Mediapart e il Guardian hanno diffuso in contemporanea una storia

agghiacciante: Valentin Gendrot, un giornalista francese di 32 anni, è riuscito a infiltrarsi

nella polizia parigina per quasi due anni, e la sua inchiesta ha rivelato un mondo di abusi,

violenza e razzismo, nel libro il giornalista racconta a violenza è già all’ordine del giorno.

Davanti ai suoi occhi, un uomo in stato di fermo chiede di andare al bagno. Una volta, due.

La terza volta, lo chiede a voce più alta, è urgente. Un poliziotto arriva, lo fa uscire e lo

riempie di botte. Mezz’ora più tardi, una donna di 70 anni vuole sporgere denuncia:

“Buongiorno, mio marito ha minacciato di uccidermi”. E il poliziotto risponde: “Se succede

di nuovo, torni da noi”. Tre settimane dopo, durante un semplice sopralluogo per schiamazzi,

il giornalista assiste al pestaggio di un ragazzino di 16 anni da parte di un altro poliziotto:

“L’agente sferra il primo colpo, l’adolescente non reagisce, ma l’agente continua a riempirlo

di pugni, lo insulta, lo sbatte in cella e lo colpisce ancora”. Qualche giorno dopo, Gendrot si

ritrova a coprire il collega che accusa il ragazzo di oltraggio e minaccia a un pubblico

ufficiale. In un’altra manciata di occasioni, il giornalista sarà anche testimone di violenze ai

danni di migranti che, rinchiusi nel furgone della polizia, vengono picchiati e poi rilasciati a

vari chilometri dal punto di partenza. Nella polizia, afferma Gendrot, “non è permesso fare di

tutto, ma in certi momenti, con certi poliziotti, tutto diventa permesso”.

Ma nemmeno L'ITALIA è un Paese accogliente. In 18 anni ci sono stati 7.426 episodi di

ordinario razzismo. E' questo quanto emerge sul libro bianco dell'associazione Lunaria che

raccoglie le segnalazioni dal 1° gennaio 2008 e il 31 marzo 2020. Si tratta di 5.340 casi di

violenze verbali, 901 aggressioni fisiche contro la persona, 177 danneggiamenti alla

proprietà, 1.008 casi di discriminazione. L’Indipendent, quotidiano inglese, pubblica

un’anticipazione dei rilievi degli osservatori Onu inviati in Italia che sottolineano come un

aumento degli attacchi di odio in Italia non può essere separato dai politici "che abbracciano

spudoratamente la retorica razzista e xenofoba anti-migrante e anti-straniera” .I relatori

speciali delle Nazioni Unite condannano anche le "campagne diffamatorie" contro i gruppi

che salvano i migranti nel Mediterraneo e criminalizzano il lavoro di coloro che difendono i

diritti dei migranti. I relatori hanno anche attaccato le norme in discussione al Parlamento

per limitare le norme sull'immigrazione in Italia, che secondo loro "avrebbero sicuramente

portato a violazioni della legge internazionale sui diritti umani".

Il decreto legge sull'immigrazione e la sicurezza, promosso dal ministro degli interni Matteo

Salvini, include misure che abolirebbero lo status di protezione umanitaria per i migranti e

impedire ai richiedenti asilo di accedere ai centri di accoglienza destinati a combattere

l'esclusione sociale, ha detto l'Onu. Le restrizioni si aggiungono a un numero di politiche

istituite dal governo rivolte agli stranieri e alle minoranze etniche. Le politiche includono

misure penalizzanti i politici locali pro-immigrazione, allontanando le navi rifugiate e viene

previsto un "censimento" della popolazione di viaggiatori rom italiani. Il razzismo si

manifesta purtrpoppo in ogni parte del mondo, come un fatto storico, l’abbiamo visto nei

totalitarismi, nell’odio verso una razza, un colore della pelle , una religione, persino nell’odio

per chi ama persone dello stesso sesso, l’ossimoro più grande del mondo è l’omofobia, perché

si odia chi invece ama, seppur chiamati con nomi diversi, il razzismo,l’omofobia, xenofobia,

transfobia, sono tutte matrici di un nucleo fondamentale che è l’ignoranza. Questo è ancora

più grave quando a diffondere odio sono gli stesi politici, il cui compito , lavoro per il quale

tanto sono pagati è rappresentare ogni signolo cittadino, nell’interesse della sua persona e

dei suoi diritti, ecco perché i diritti sono così importanti, per poterci esprimere liberamente e

creare una società che si basi sull’uguaglianza e sulle pari opportunità,ma per crearla ci sarà

ancora molta strada da fare e molte altre manifestazione e marce, bisognerà accumulare

molte altre pallottole e manganelli, perdere la voce mentre si urla parole di eguaglianza,

dovranno nascere altri movimenti e associazioni affinchè veramente non accadano più

strermini dei diritti. Per ora però un grande passo sarebbe approvare il ddlZan, una legge che

nel piccolo potrebbe aiutare la vita di molte persone.

https://www.repubblica.it/politica/2015/06/25/news/salvini_no_al_reato_di_tortura_-117

679348/.

https://www.judicium.it/legge-n-7721019-conversione-del-cd-decreto-legge-salvini-n-53201

9-anche-gli-interventi-materia-ordine-sicurezza-pubblica-soggetti-limiti/.

NON E’ NORMALE CHE SIA NORMALE TUTTO CIÒ!

Marika Cangiano

 
La costruzione dell'identità e le "maschere" sociali PDF Stampa E-mail
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La costruzione dell'identità e le "maschere" sociali

Uno dei trucchi dell’assurdo è di vestirsi da verosimile… Non c’è ora della nostra giornata in cui non ci

sfilino davanti siffatte maschere di carnevale (Gesualdo Bufalino, Il malpensante, 1987).

"C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo,

resti nessuno", l'importante drammaturgo e poeta italiano Luigi Pirandello sintetizza con

queste parole la sua visione della realtà. Il concetto che l’autore tenta costantemente di

mettere in primo piano, all’interno della sua produzione letteraria, è quello della continua

ricerca dell’uomo della propria identità. In particolare, Pirandello sfrutta il suo romanzo

“Uno, nessuno e centomila” per presentarci il tema delle maschere; egli si avvale della

metafora della maschera per spiegarci come l’uomo, nascondendosi dietro di essa, renda

impossibile la conoscenza della sua reale personalità. La maschera è un mezzo attraverso il

quale l'uomo s'illude di conoscersi, ma in realtà non è che un'immagine falsa ed incompleta

di sé, attraverso cui egli non solo non conosce se stesso, ma nemmeno possono conoscerlo gli

altri. Un individuo può, ad

esempio, convincersi di essere un onesto lavoratore ed un buon padre di famiglia, mentre gli

altri possono vedere in lui l'ambizioso cinico e magari pure l'adultero. L'uomo quindi non è

mai se stesso, ma ora è uno, ora è un altro, ora è un altro ancora, per cui è centomila e,

quindi nessuno, come afferma il titolo della celebre opera pirandelliana, proprio perché,

attraverso le forme fisse che risultano dalle convenzioni sociali, si ha solo una parvenza,

un'illusione di conoscenza. Secondo Pirandello, dunque, tutti siamo maschere o personaggi,

e tutti rientriamo perfettamente nella categoria di attori, "inscenando" la nostra stessa vita.

L'autore italiano ci descrive questa realtà in chiave umoristica, facendo una specifica

distinzione fra umorismo e comicità; se, tramite la comicità, si va a cogliere solo lo strato

superficiale di una situazione apparentemente "ridicola", attraverso il lato umoristico ci è

possibile cogliere gli aspetti profondi e reali di quella determinata situazione. L'umorismo

pirandelliano ci viene descritto come "sentimento del contrario", da una riflessione sulla

triste realtà che si potrebbe nascondere dietro una forte risata. Mettiamo ad esempio di

vedere una donna di mezza età vestita, truccata, e con atteggiamenti paragonabili a quelli di

una quattordicenne: se tale situazione ci viene presentata semplicemente in chiave comica, la

reazione che scatenerà sarà ovviamente quella della risata, ma se, invece, la si presenta sotto

un aspetto umoristico, potremmo scoprire, ad esempio, che quella donna lo fa per paura di

perdere il marito più giovane, mettendoci dinanzi ad una realtà molto più profonda,

"mascherata" da semplice circostanza buffa. Ma la maschera non è solo un'immagine

deformata, essa è anche un "carcere senza sbarre", una gabbia da cui l'uomo invano cerca di

evadere nel desiderio di vivere una vita più autentica. Tutta la vicenda umana diventa quindi

un interminabile succedersi d'illusioni e di delusioni, di smentite e di sconfitte, ed i

personaggi pirandelliani si somigliano un po' tutti per questo loro apparire come logorati

dalla propria esperienza. Essi sono come dei "naufraghi della vita", per così dire messi in

scacco dalla vita, caratterizzati come sono da possibilità mancate, da esperienze frustranti, da

qualcosa che insomma è rimasto incompiuto nella loro vita o che li ha profondamente feriti,

condizionandoli per sempre. Il pessimismo di Pirandello appare netto e senza alcuna

possibilità di riscatto; del resto l'impossibilità, da parte dell'uomo, di conoscere se stesso e la

realtà e perfino di comunicare con i propri simili non lascia scampo: al di là dell'illusoria

folgorazione di libertà, ma nient'altro che l'illusione di un istante, non c'è scampo

all'inevitabile sconfitta cui ciascuno è destinato, sconfitta che può cambiare nella forma e

presentarsi via via come pazzia, suicidio o solitudine. È una sconfitta che travolge non solo

l'individuo, ma anche tutti i miti ed i valori della società. Pirandello ha voluto proiettare la

sua concezione dell'uomo e del reale in

una condizione, si può dire, esistenziale, non storica. Si avverte che l'amaro pessimismo

pirandelliano non può non riferirsi alla drammatica ed alienata condizione dell'uomo

contemporaneo, alla penosa condizione d'inautenticità in cui è costretto, in "questa" società,

a vivere i suoi rapporti con gli altri e persino il rapporto con se stesso. L'arte di Pirandello si

configura così come una dura requisitoria contro la vita, ma, ad un'analisi più approfondita,

si rivela anche essere un atto di accusa contro le condizioni di alienazione e di solitudine che

sono tipiche della società borghese contemporanea. Infatti l'uomo dissociato", separato dalla

realtà da un abisso incolmabile che si rivela in ogni personaggio pirandelliano, è l'uomo

alienato, solo, in perenne conflitto con le convenzioni della società borghese, vittima di un

sistema di relazioni sociali che è stato costruito senza che si tenesse conto delle aspirazioni

più genuine e naturali dell'uomo. C'è un eccesso di convenzionalità ed artificiosità nella

società contemporanea, che si è stratificato al di sopra dello spontaneo e naturale

relazionarsi degli uomini, corrompendoli e deformandoli irrimediabilmente e facendo

smarrire il senso di tutto l'esistere. Eppure, se noi cogliamo in ogni personaggio l'esistenza

del conflitto con la realtà, con l'ambiente sociale, a volte anche lacerante, notiamo

ugualmente emergere una carica di vitalità, che si scontra con gli ostacoli reali, con la società,

con il destino. C'è, insomma, una forza in ogni personaggio, che si rivela in bagliori

improvvisi: basti pensare a Mattia Pascal, che ha un momento di euforia quando si scopre

improvvisamente "libero" leggendo sul giornale, di ritorno da Montecarlo con una piccola

fortuna in tasca, la notizia del ritrovamento del “suo cadavere”. Ma è la folgorazione di un

istante, perché poi la vitalità, che improvvisamente si rivela nel personaggio, è destinata a

smarrirsi nella frantumazione dell'esperienza e della realtà. Questo disfacimento della realtà,

che i personaggi pirandelliani scoprono non avere più senso, è anche dello stesso individuo,

che si ritrova a non essere più certo nemmeno della propria identità, frantumata nelle

“maschere" in cui appare, privo di una coerente personalità e preso da angosce e da

ossessioni. Tutto ciò rivela, al di là delle apparenze, l'enorme distanza dell'arte pirandelliana

dai miti del Decadentismo, con lo scrittore agrigentino che è stato uno dei pochi di questo

secolo a non aver trasmesso alcun mito letterario, ma anche dal Verismo e dal Naturalismo,

che, come si sa, la realtà contavano di rappresentarla oggettivamente ed univocamente. Ne

"Il fu Mattia Pascal" viene messa in evidenza la contraddizione insanabile tra "forme" e vita,

ma si fa risaltare altresì la "necessità” della forma: questa, che "uccide” la vita perché

pretende di fermarla, tuttavia consente alla stessa di manifestarsi. Per vivere nella società,

Mattia Pascal ha infatti bisogno di una forma: intravede pure la possibilità di una vita libera

dalle convenzioni e dalle miserie quotidiane, ma va incontro ad uno scacco matto, al

fallimento ed allo smarrimento dell'identità. Se le convenzioni sociali sono insopportabili e

costringono ad una vita inautentica, tuttavia esse sono indispensabili a far manifestare la

vita, al punto che, al di fuori di esse, non c'è che la "morte sociale”. Il romanzo sottolinea

anche l'inutilità della ribellione, nella ricerca vana di una verità e di un'identità che sono

impossibili. L'uomo può avere la folgorazione, dovuta al caso, d'intravedere uno spiraglio di

libertà; ma, per l'appunto, si tratta solo dell'entusiasmo di un momento: dopo aver

assaporato il gusto della libertà, per un istante di felicità e d'euforia che la benevolenza del

caso gli concede, l'individuo è inevitabilmente destinato alla sconfitta. Con Vitangelo

Moscarda, protagonista di “Uno, nessuno e centomila”, si chiude poi la parabola avviata da

Mattia Pascal. La scomposizione della vita è completa: non è la "morte sociale" di Mattia

Pascal rimasta fuori da ogni forma, bensì lo scioglimento di ogni forma nel fluire

interminabile della vita. Come ci dimostra Pirandello, e ci ribadisce il drammaturgo

britannico Oscar Wilde nella seguente citazione, "è un vero peccato imparare le lezioni della

vita solo quando non ci servono più". Ed è sicuramente un vero peccato sprecare le occasioni

che ci possono permettere di vivere a pieno la vita a causa di queste "maschere" sociali di cui

ci parla tanto Luigi Pirandello, maschere che altro non sono se non il frutto del paradossale

bisogno di integrazione presente in ciascun individuo. Concludendo sulla scia del pensiero

pirandelliano, è possibile paragonare la nostra vita sociale ad un immenso palcoscenico, che

ci permette di mostrarci agli altri nel modo in cui ci è più conveniente, e la nostra vita privata

ad un backstage, in cui ci è concesso di essere maggiormente noi stessi, ma mostriamo

comunque la tendenza a "mascherarci". Paragonando dunque la nostra vita ad uno

spettacolo, è possibile riferirsi al fatto che, chi non sa come agire sul palcoscenico,

rappresenta una minaccia per tutto il cast e viene escluso di conseguenza. Ed è questo che ci

spinge a voler interpretare al meglio il ruolo che ci viene assegnato, a voler indossare una

maschera che non ci faccia uscire dalla nostra "comfort zone", che sia una maschera umile o

una particolarmente appariscente. Come ci accennava anche l'antico filosofo greco Socrate,

“la vita è una rappresentazione teatrale”, in cui nessuno vuole far cadere la propria maschera.

Marika Cangiano

 
In che modo il Covid 19 entra in stretto rapporto con l'apparato respiratorio? PDF Stampa E-mail
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In che modo il Covid 19 entra in stretto rapporto con l'apparato respiratorio?

 

Come nell’arte della guerra, per poter sconfiggere il nemico è fondamentale conoscere:

com’è fatto il virus SARS-CoV-2, qual è la sua forma? Come infetta le cellule umane? Come

cresce, replica e si sviluppa nelle cellule ospite? Di che cosa ha bisogno per sopravvivere?

Rispondere a tali domande fornisce le armi, le informazioni chiave a cui i ricercatori

ambiscono per sviluppare vaccini e farmaci antivirali sicuri ed efficaci.

L’infezione alla luce della biologia

Nel dicembre del 2019, le autorità Cinesi hanno dichiarato al mondo che un virus si stava

diffondendo nei loro territori. Nei mesi successivi si è diffuso in altri paesi, duplicando il

numero di infezioni ogni giorno. Questo virus è il Coronavirus 2 della Sindrome Respiratoria

Acuta Grave (SARS-CoV-2) che causa la malattia chiamata "Covid-19" e che tutti chiamano

semplicemente "Coronavirus", denominata così per la presenza di una sorta di corona di

spine (proteine spike) sulla superficie del virus e ampiamente collegata al nostro apparato

respiratorio. A proposito di quest’ultimo, possiamo descrivere l'apparato respiratorio come

l'insieme degli organi che permettono al corpo umano di assorbire ossigeno ed espellere

anidride carbonica: l'ossigeno è il gas incolore ed inodore che compone circa un quinto

dell'area intorno a noi, si tratta di una sostanza fondamentale per il funzionamento del

nostro organismo; l'anidride carbonica è invece il gas di scarto prodotto dai processi chimici

all'interno delle cellule. L'aria, carica di ossigeno, entra nel corpo dal naso e, in misura

minore, dalla bocca. Successivamente attraversa due canali, chiamati faringe e laringe,

scendendo quindi lungo un grosso condotto, la trachea. All'altezza del torace, la trachea si

divide in due biforcazioni: i bronchi, a loro volta diramati in numerosi canali più stretti, ossia

i bronchioli. I bronchi portano ossigeno a due grandi organi spugnosi di forma conica,

chiamati polmoni, situati all'interno del torace: ogni polmone è formato da circa 300 milioni

di piccole sacche, dette alveoli polmonari, all'interno delle quali l'ossigeno viene ceduto al

sangue, che lo porterà ad ogni cellula del corpo. Il polmone destro è più grande del sinistro

ed è diviso in tre lobi, mentre il sinistro in due. Essi sono avvolti da una membrana protettiva

chiamata pleura; tra polmoni e pleura scorre un liquido lubrificante che permette ai polmoni

di dilatarsi senza attrito contro la gabbia toracica. I polmoni sono organi passivi perché non

hanno muscoli, quindi non possono muoversi da soli. Responsabili dell'atto respiratorio sono

i muscoli che avvolgono i polmoni, più importante tra i quali è il diaframma, situato

all'altezza del petto. L'ossigeno viene utilizzato dalle cellule che rilasciano anidride carbonica,

inutile per il corpo umano, quindi da espellere; in questo caso, è il sangue che porta

l’anidride carbonica ai polmoni, per questo il sistema respiratorio è anche collegato a quello

circolatorio: nei polmoni, l'aria, carica di anidride carbonica, viene pompata fino al naso e

alla bocca, dove viene successivamente espulsa. L'atto di far entrare l'ossigeno nel corpo si

chiama inspirazione, mentre l'atto di farlo uscire si chiama espirazione; la sequenza di

un'ispirazione e di un'espirazione si chiama, appunto, atto respiratorio: in condizioni

normali, un essere umano compie circa 15 atti respiratori al minuto. Molti popoli antichi

riconoscevano nel respiro il "soffio vitale", l'essenza stessa della vita: il primo che si avvicinò

alla comprensione scientifica del meccanismo respiratorio fu il medico Galeno di Pergamo,

uno studioso greco del II secolo. Secondo le sue teorie, la respirazione ha lo scopo di

trasportare fino al cuore un'essenza vitale, che Galeno chiama "Pneuma". Bisogna tuttavia

aspettare il 1628 perché il medico inglese William Harvey descriva con esattezza la

circolazione del sangue; gli studi di Harvey aprono la strada ad una conoscenza corretta della

respirazione. Per quanto riguarda il suo legame con il coronavirus, prima di parlare nello

specifico di questa malattia risulta necessario chiedersi cosa sia un virus. Negli anni 50’

questa domanda fu rivolta ad un grande scienziato, André Lwoff, e lui rispose che non è

facile definirlo esattamente; parliamo di uno degli organismi più semplici che noi possiamo

conoscere, questa semplicità rappresenta un suo grande punto di forza, ma rappresenta

anche una qualche debolezza che noi possiamo sfruttare per combatterlo. Tutti i virus hanno

due cose in comune: sono organismi molto semplici e hanno tutti bisogno di un altro

organismo per potersi riprodurre e propagare. Il virus è un parassita obbligato: esso sa che

dovrà aspettare qualche cellula per poter riprodurre tantissime copie di se stesso che poi

faranno la stessa cosa. Questa è già una grande differenza con i batteri, organismi

completamente diversi in quanto in grado di condurre una vita indipendente: un batterio, a

differenza di un virus, ha tutto quello che gli serve per poter vivere in autonomia. Un virus

può essere considerato come nient’altro che una scatolina di materiale organico che contiene

del materiale genetico al suo interno, quindi esso non è altro che un involucro molto

semplice con pochissime componenti (tipicamente dalle tre alle cinque componenti diverse)

che racchiude l'informazione genetica, il file da trasferire nelle cellule da infettare. Tale

informazione genetica può essere trascritta in DNA oppure in un'altra molecola simile,

chiamata RNA: nel caso del coronavirus parliamo di RNA, che trasporta l’informazione

genetica. Lo scopo del virus è quello di inserire il materiale genetico all'interno delle cellule

dell'ospite da infettare e usare queste cellule come macchinario per produrre copie delle

particelle virali (virus), in modo tale da uscire dalla cellula e infettare altre. Per quanto

riguarda il coronavirus proseguiamo con il dire che, per il contagio, il virus può essere

trasmesso attraverso la saliva e altri fluidi emessi con tosse e starnuti, proprio come avviene

per il raffreddore. Il virus sopravvive per poco tempo fuori dall'organismo, ma il rischio di

contagio sussiste se si entra in contatto in breve tempo con un oggetto contaminato da una

persona ammalata; questo significa che possiamo acquistare oggetti provenienti dalla Cina,

poiché il lungo viaggio ha ormai ucciso il virus. Il nuovo coronavirus si trasmette da uomo a

uomo ed ha un periodo di incubazione di 10-14 giorni. I sintomi del nuovo coronavirus sono

simili a quelli dell'influenza: febbre, tosse, difficoltà respiratorie, dolori muscolari,

confusione e mal di testa, che possono a loro volta portare a polmonite, sindrome

respiratoria acuta grave, e morte nei casi più gravi e nei soggetti con sistema immunitario

indebolito, anziani e neonati. Attualmente non esiste una cura specifica, ma i pazienti

vengono trattati in base ai sintomi, quindi con antinfiammatori analgesici e farmaci affini. Il

virus contiene internamente il materiale genetico in cui risiedono le informazioni per

produrre molte copie di se stesso, attraverso un processo chiamato “replicazione”. Un guscio

proteico (capside) fornisce una forte protezione per il materiale genetico, poiché il virus

viaggia attraverso le persone che infetta. La membrana più esterna consente al virus di

infettare le cellule interagendo con essa. Dalla superficie del virus sporgono le proteine

“spike” (“spuntone”); sia i tipici virus influenzali che il nuovo Coronavirus utilizzano i loro

spike come una chiave per entrare nella cellula ospite, dove sfruttano i meccanismi di

riproduzione per costruire i componenti dei nuovi virus. Un tipico virus influenzale

viaggerebbe rivestito dalla membrana della cellula ospite verso il nucleo che contiene il

materiale genetico, il Coronavirus invece non ha bisogno del nucleo ma accede direttamente

a componenti cellulari detti ribosomi. Questi ultimi utilizzano le informazioni genetiche del

virus per costruire le proteine virali, come le spike della superficie del virus. Una struttura di

imballaggio della cellula ospite (Apparato di Golgi), trasporta le spike in vescicole che si

fondono con lo strato esterno della membrana della cellula ospite, e tutte le parti necessarie

per creare un nuovo virus si accumulano sotto la sua membrana. Partendo da ciò si

sviluppano i sintomi della polmonite; come abbiamo detto, normalmente quando si respira

l'aria passa dalla trachea ai bronchi, poi ai bronchioli fino ad arrivare a piccoli sacchetti, gli

alveoli, questi sono flessibili e, quando si respira, si comportano come piccoli palloncini: si

riempiono di aria quando si inspira e si sgonfiano quando si espira. Piccoli vasi sanguigni,

detti capillari, circondano gli alveoli. L'ossigeno presente nell'aria inspirata passa dagli

alveoli ai capillari, mentre l’anidride carbonica del corpo passa dai capillari agli alveoli, che i

polmoni possono eliminare con l'espirazione. Le vie respiratorie catturano la maggior parte

dei germi nel muco che riveste trachea, bronchi e bronchioli. In un soggetto sano, le ciglia

rivestono l'interno delle vie aeree e spingono costantemente il muco e i germi verso l'esterno

mediante la tosse. Quando una persona infettata parla, tossisce o starnutisce, le goccioline

che trasportano il virus possono raggiungere la nostra bocca, il naso, e arrivare ai polmoni, in

quanto, una volta entrato nell'organismo, il virus entra in contatto con le loro cellule. A

questo punto uno spike del virus si inserisce in un recettore di membrana della cellula sana

come una chiave nella serratura: questa azione consente al virus di entrare nella cellula

ospite. Il recettore specifico che permette l'entrata del coronavirus, serve nella vita di tutti i

giorni a captare un enzima denominato “angiotensina II”; enzima e recettore normalmente

fanno parte di un sistema che regola ritmo cardiaco e la pressione, ma qui invece svolgono il

ruolo di porta di entrata del coronavirus.

Il virus inizia così l'infezione, prendendo un passaggio verso l'interno del corpo: le

destinazioni sono l'intestino, la milza o i polmoni, dove può avere gli effetti più devastanti;

anche solo una manciata di coronavirus possono causare una situazione drammatica. Il

coronavirus si connette ad un recettore specifico sulle membrane della vittima per assumere

il controllo ed iniettare il suo materiale genetico. La cellula, ignorante di quello che sta

succedendo, esegue le nuove istruzioni, che sono molto semplici: "copiare" e "riassemblare".

Si riempie con sempre più copie del virus originale fino a quando non raggiunge un punto

critico e riceve un ordine finale: autodistruzione. La cellula si scioglie rilasciando nuove

particelle di coronavirus pronte ad attaccare altre cellule. Il numero di cellule cresce

esponenzialmente; dopo circa dieci giorni milioni di cellule sono state infettate e miliardi di

virus infestano i polmoni. A questo punto il virus non ha ancora causato gravi danni, ma il

coronavirus sta per rilasciare una vera bestia: il sistema immunitario. Quest’ultimo, anche se

dovrebbe proteggerci, può risultare abbastanza pericoloso e necessita di essere strettamente

regolato. Così come le cellule immunitarie si riversano nei polmoni per combattere il virus, il

coronavirus infetta alcune di loro creando confusione.

Le cellule non hanno né occhi né orecchie, e comunicano principalmente attraverso piccole

proteine di comunicazione, chiamate “citochine”; quasi tutte le risposte immunitarie sono

controllate da loro. Il coronavirus fa reagire troppo le cellule immunitarie infette, facendole

urlare: "omicidio!"; a tal punto il sistema immunitario viene messo in uno stato di frenesia

combattiva e manda molti più soldati di quelli che dovrebbe, sprecando risorse e causando

danni. Due cellule in particolare causano il pandemonio: in primis i neutrofili, i quali sono

eccellenti ad uccidere materiali, incluse le nostre cellule e, come ne arrivano migliaia,

iniziano a rilasciare enzimi che distruggono tanti amici quanti nemici; le altre cellule

essenziali che vanno in frenesia sono le cellule killer T, le quali tendono a ordinare alle altre

cellule di commettere “suicidio programmato”: confuse come sono, esse iniziano ad ordinare

anche alle cellule sane di uccidersi. Più cellule immunitarie arrivano, più danni causano e più

tessuto polmonare sano uccidono. Ciò può diventare così grave da causare danni

permanenti, che possono portare alla disabilità a vita. Nel maggiore dei casi, il sistema

immunitario riprende lentamente il controllo: uccide le cellule infette, intercetta il virus

mentre tenta di infettare nuove cellule e pulisce il campo di battaglia. È qui che inizia il

recupero.

La maggior parte delle persone infette dal coronavirus se la cavano con sintomi

relativamente innocui, ma molti casi diventano gravi, o addirittura critici; nei casi più gravi

milioni di cellule epiteliali sono morte, e con loro lo strato protettivo dei polmoni. Questo

significa che gli alveoli possono essere infettate da batteri, che usualmente non sono un

grosso problema. I pazienti contraggono polmonite, la respirazione diventa difficile o

addirittura smette, e i pazienti necessitano di ventilatori per sopravvivere. Il sistema

immunitario ha combattuto al massimo per settimane e ha creato milioni di cellule antivirali,

e mentre milioni di batteri si moltiplicano rapidamente viene sopraffatto; le cellule virali

entrano nel sangue e prendono controllo del corpo. Se questo succede la morte è molto

probabile. Normalmente, le cellule del sistema immunitario attaccano i virus e i batteri

penetrati nelle vie aeree: se il sistema immunitario è indebolito, come nel caso di infezione

da coronavirus, il virus può prendere il sopravvento sulle cellule del sistema immunitario e

portare all’infiammazione di bronchioli e di alveoli, in quanto il sistema immunitario cerca di

attaccare la moltitudine dei virus penetrati. L'infiammazione può riempire gli alveoli di

liquido, rendendo complicata l'assunzione di ossigeno. Si sviluppa quindi una polmonite

profonda, se è coinvolto soltanto il lobo polmonare, o una broncopolmonite, che coinvolge

molte aree di entrambi i polmoni. La polmonite può causare difficoltà respiratorie, dolore al

petto, tosse, febbre, brividi, confusione, mal di testa, dolore muscolare, affaticamento, ma

può portare anche a complicazioni più serie. L'insufficienza respiratoria sopraggiunge

quando diventa così difficile respirare da essere necessario l'uso di un ventilatore meccanico

che aiuti la respirazione; queste sono apparecchiature salva-vita che le aziende medicali

stanno affrettandosi a produrre e iniettare. Lo sviluppo o meno dei sintomi dipende da

molteplici fattori, fra questi l'età e il grado di salute. Tutta la comunità scientifica ha lavorato

operosamente alla produzione dei vaccini, sulla base degli studi di altri coronavirus che

suggeriscono che chi ha contratto il SARS-CoV-2 viene protetto da una re-infezione per un

certo periodo di tempo; tale presupposto deve essere sostenuto da evidenze empiriche, ma

alcuni studi suggeriscono il contrario. Il vaccino espone l'organismo al virus, che è troppo

debole per causare l'infezione, ma abbastanza forte per stimolare una risposta immunitaria.

Entro poche settimane, le cellule del sistema immunitario produrrebbero gli anticorpi

specifici per il coronavirus e, in particolare, per la sua proteina spike. Gli anticorpi si

attaccano al virus impedendone il legame con le cellule. Il sistema immunitario risponde ai

segnali ricevuti dagli anticorpi distruggendo gli ammassi di virus. Se in una fase successiva si

dovesse venire a contatto col virus, l'organismo subito lo riconoscerebbe e distruggerebbe: in

altre parole, il sistema immunitario è pronto a proteggerci efficacemente. È stata una corsa

contro il tempo sviluppare un vaccino in mezzo ad un'epidemia; ogni passo verso lo sviluppo

di un vaccino richiede di solito mesi, se non anni: il vaccino per l'Ebola ha battuto tutti i

record, richiedendo 5 anni.Il coronavirus è spesso comparato all'influenza, ma in realtà è

molto più pericoloso. Mentre la mortalità è difficile da stabilire quando una pandemia sta

avvenendo, sappiamo per certo che è molto più contagioso e si dilaga più velocemente

dell'influenza. In una pandemia veloce come quella di coronavirus, molte persone si

ammalano contemporaneamente; se il numero diventa troppo grande, il sistema sanitario

diventa incapace di gestirlo. Non ci sono abbastanza risorse, come personale medico, o

equipaggiamenti, come ventilatori, rimasti per aiutare tutti. Molte persone muoiono non

trattate e, come molti agenti sanitari si ammalano a loro volta, la capacità del sistema

sanitario diminuisce ancora di più. Il numero di morti aumenta in modo significativo in uno

scenario simile. Per evitare ulteriori sconvolgimenti, il mondo deve fare tutto quello che può

per rendere questa una pandemia più lenta. Siccome non tutti siamo ancora a disposizione di

un vaccino per il coronavirus, dobbiamo ingegnerizzare il nostro comportamento sociale in

modo da agire come un “vaccino sociale”. Questo semplicemente significa due cose: 1. Non

infettarsi; e 2. Non infettare gli altri. Anche se sembra banale, la miglior cosa che si possa

fare è quella di lavarsi le mani: il sapone è in realtà uno strumento molto potente, in quanto

il coronavirus è rinchiuso in quello che è fondamentalmente uno strato di grasso; il sapone

rompe questo strato di grasso e fa in modo che non possa infettarci. Inoltre, rende le mani

scivolose e, con il loro movimento meccanico, il virus viene portato via. Per farlo al meglio,

bisognerebbe lavarsi le mani come se si avesse appena tagliato qualche jalapeños e ci si

vorrebbe mettere subito dopo delle lenti a contatto. La prossima cosa è quella della distanza

sociale, che non è una bella esperienza, ma una cosa utile da fare, ciò significa: niente

abbracci, niente strette di mano. Se si può stare a casa, bisognerebbe restarci per proteggere

chiunque debba stare fuori a servire la società: dai dottori, alle cassiere, ai poliziotti; noi

dipendiamo da tutti loro e loro dipendono dal fatto che noi non ci ammaliamo. La

quarantena non è una bella avventura, e certamente non qualcosa di popolare, ma ci fa

guadagnare, specialmente ai ricercatori che lavorano ai farmaci e ai vaccini, tempo cruciale.

Così, se siamo sotto uno stato di quarantena, dovremmo comprendere e rispettarne il

motivo. Nulla di tutto ciò è divertente, ma guardando al quadro generale, è realmente un

piccolo prezzo da pagare. In questo momento è tutto nelle nostre mani, letteralmente e

metaforicamente.

Marika Cangiano

 
Web e democrazia. Le paure dell'Occidente e l'Italia che difende i segreti! PDF Stampa E-mail
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Pubblichiamo con estremo piacere ed interesse l'ultimo lavoro di Carlo Ruta sulle paure che genera la nostra nascente webdemocrazia, un sistema che se riuscirà a rafforzarsi e ad imporsi avrà in futuro grosse possibilità di variare in positivo la nostra vita. Tutto ciò, però, genera paure in chi finora ha tenuto e vuole ancora tenere saldamente in mano le redini del potere.

Sta a tutti noi combattere con l'unica arma che conosciamo la VERITA' affinché il Mondo possa diventare qualcosa in cui essere fieri di essere vissuti! L'ordine dal caos creiamolo noi, non facciamocelo più imporre dalle solite massonerie!

Luigi Cangiano

 

Web e democrazia. Le paure dell’Occidente e l’Italia che difende i segreti

di Carlo Ruta

 

 

Il web ha fatto presto a divenire un bisogno radicale, avendo intercettato una motivazione profonda, che è quella di esprimersi, relazionarsi in modo complesso e, soprattutto, interagire con il mondo. In questo senso, ha democratizzato i processi della comunicazione. È nell’ordine delle cose allora che si cerchi di limitarlo e controllarlo. Ma chi ha paura di internet? Le cronache degli ultimi anni hanno documentato repressioni plateali in Birmania, nella Cina Popolare, in Iran, in altri paesi. È comprovato poi il contributo che i social network hanno offerto, fino ad oggi, alle lotte per la democrazia, aiutando a rompere l’isolamento e a coordinare i progetti di resistenza. È quanto sta accadendo in diversi paesi arabi, dal Maghreb al Medio Oriente. La prima lezione che viene dai fatti chiarisce allora che il nesso tra web e democrazia è fondamentale. La questione è tuttavia complessa, perché le realtà appena citate rappresentano il limite estremo, mentre misure di controllo sofisticate vengono tentate nei paesi liberal, dove la rete rischia di finire in rotte di collisione con i poteri più forti della terra.

La vicenda di Wikileaks, l’organizzazione che ha svelato la guerra in Afghanistan, alcune stragi di civili in Iraq e i «punti di vista» della diplomazia statunitense nel mondo, dimostra che si è già alle scaramucce. L’establishment americano, come è noto, ha reagito con stizza. Il Pentagono ha definito la pubblicazione di 250mila cablogrammi delle ambasciate «un tentativo irresponsabile di destabilizzare la sicurezza globale». E le invettive sono state concomitanti con alcuni fatti. Julian Assange, l’attivista più noto della rete informativa, subito dopo la pubblicazione dei messaggi diplomatici, è stato arrestato, su disposizione di magistrati svedesi, per un reato disonorevole. In poco tempo ha subito il prosciugamento dei conti bancari su scala planetaria, come avviene nei casi di famigerati terroristi internazionali. Non solo: secondo i suoi avvocati, negli USA si starebbe lavorando in sordina perché possa essere incriminato per spionaggio, reato che viene punito con lunghe pene detentive. Non è detto che si voglia e si possa arrivare a questo. Sarebbe un fatto dirompente, che potrebbe risultare un boomerang per gli Stati Uniti, tenuto conto peraltro che una sentenza del 2010 della Corte Suprema americana ha sancito la liceità della pubblicazione di documenti segreti del Pentagono da parte di Wikileaks. È più verosimile allora che si tratti solo di una minaccia. Il clima comunque non è sereno e tende a peggiorare, mentre sullo sfondo di Wall Street esordisce la rivolta degli indignados americani. Nella prefazione a un libro uscito di recente, Dossier WikiLeaks. Segreti italiani, firmato da Stefania Maurizi, Assange parla di opinionisti della Fox che senza mezzi termini avrebbero invitano gli ascoltatori a ucciderlo. Potrebbe trattarsi di esagerazioni, di parole buttate lì, in contesti poco significativi. In ogni caso, diversi segnali attestano che la reazione in America è già in atto. È possibile allora un nuovo maccartismo, a tempo di internet?

La domanda è in fondo retorica, perché a conti fatti l’America, almeno su alcune linee strategiche, in particolare quella della «sicurezza nazionale», è rimasta fedele alla sua storia recente. Il paese che, infiammato dal Patriot Act, ha gestito per anni, e gestisce verosimilmente ancora oggi, il campo di Guantànamo non è lontano da quello che portò sulla sedia elettrica Julius ed Ethel Rosenberg. Questa America, fedele appunto a sé stessa, inizia a temere il web mentre ostenta di sostenerlo, e, da gendarme della terra, minaccia di reprimerlo quando occorre, in casa, a Stoccolma, ovunque sia necessario. Con quali giustificazioni? Al tempo dei Rosenberg, fino a tutti gli anni Ottanta, era facile esibire l’alibi della guerra fredda. Adesso le cose sono cambiate. Non si può sbandierare l’esistenza di una potenza nemica che minaccia con il proprio arsenale atomico il mondo cosiddetto libero. Wikileaks e le altre realtà del web che rivendicano la trasparenza della politica, non sono nelle mani del terrorismo islamico, né sono uno strumento d’assalto degli Stati outlaws, né un congegno subdolo della Cina, che insidia oggi, con ben altri mezzi, il primato economico mondiale degli States. I modi, più o meno travisati, con cui si cerca di colpire alcuni livelli della nuova informazione, rappresentati come «crimine oggettivo», meritano di essere considerati allora con attenzione.

Non si tratta, a ben vedere, di una questione contingente. Il web del presente crea apprensioni, ma tanto più suscita timori quello che si annuncia, di cui Wikileaks ha offerto fino a oggi solo un trailer, una sorta di anteprima. Il contrasto degli Stati e dei poteri forti può essere considerato in questo senso di livello preventivo. E la «prevenzione» è, guarda caso, il paradigma dei conflitti di oggi. La sfida della trasparenza non costituisce, ovviamente, una scoperta, né una prerogativa del web. Conta su una cultura, su una tradizione lunga, che nel secondo Novecento ha conosciuto proprio negli States momenti epici, soprattutto negli anni di Richard Nixon. Gli americani cominciarono a perdere per davvero la guerra del Vietnam nel 1971, quando, in piena escalation militare, il New York Times iniziò a pubblicare i documenti segreti del Pentagono, i Pentagon papers, sulle operazioni in Indocina dal dopoguerra al 1967. Gran parte dell’opinione pubblica statunitense si convinse a quel punto che si trattava di un affare sconveniente. Rimase sorpresa. Riuscì pure a indignarsi, perché non era stata sufficientemente informata su come andavano le cose. Più di quanto fosse avvenuto negli anni precedenti, rivendicò quindi il ritorno a casa dei suoi marines. Alla fine, i falchi del Pentagono furono indotti a rivedere i loro piani. Arrivava poi, con l’emersione giudiziaria dell’affare Watergate, ancora sull’onda di rivelazioni giornalistiche, dalle colonne del New York Times e del Washington Post, il benservito per Nixon, dopo che aveva ricevuto con il segretario di Stato Kissinger il Nobel per la pace.

Era probabilmente il trionfo del «quarto potere». Ma con l’avvento di internet, e tanto più dopo l’avvento del web 2.0, che proprio adesso comincia a cedere però il passo al ben più sofisticato web semantico, la sfida della trasparenza, non intesa come optional ma come chiave di volta della democrazia, può fare balzi in avanti di livello esponenziale. Rischia di essere polverizzato, in particolare, il segreto di Stato, che, dilatatosi in modo abnorme negli anni della guerra fredda, nei sistemi liberaldemocratici è andato sostenendosi come una fatale necessità. Si può trarre da tutto questo una ulteriore conclusione. Il web, mentre espande la democrazia reale, mette alla prova i sistemi che si fregiano dell’appellativo liberal, potendone svelare con una efficacia inedita le illiberalità nascoste, le ipocrisie, gli affari fondamentali in ombra. Quale strumento di democrazia sostanziale, esso può costituire allora il tallone di Achille delle democrazie ufficiali, con implicazioni non indifferenti sotto vari profili. Ma come cambia, in dettaglio, la sfida della trasparenza dopo l’avvento del web?

Negli anni settanta, quando la stampa americana viveva il momento più esaltante, una rappresentazione paradigmatica, e problematica, del «quarto potere» veniva offerta dal film I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, tratto da un romanzo di James Grady. Eccone la trama, in estrema sintesi. Prima di varcare l’ingresso del New York Times, l’agente della CIA Joe Turner, nome in codice «Condor, interpretato da Robert Redford, è scampato a diversi attentati. A volerlo morto è un apparato segretissimo, interno alla stessa Intelligence statunitense, che sta pianificando una guerra in America Latina per il controllo dei pozzi di petrolio e che sta eliminando uno dopo l’altro i testimoni scomodi, interni alla stessa organizzazione. Uno di questi è appunto il Condor, autore di un rapporto riservato, deciso a far saltare tutto, denunciando l’intrigo alla stampa libera. Egli ritiene sia questa la sua salvezza e, soprattutto, la salvezza morale del paese. Alla fine, braccato dai suoi datori di lavoro, Turner consegna il report al giornale, ma il film di Pollack chiude con un interrogativo. Appreso che il rapporto è finito nella redazione del quotidiano, il funzionario Higgins, che ha diretto sul terreno le operazioni omicide, gela il Condor con queste parole: «Ma sei sicuro che lo stampano? Dove arrivi se poi non lo stampano?».

Gli scenari adesso sono cambiati di gran lunga. Disponendo di un PC, l’attivista del web che rivendica, come il Condor degli anni settanta, la trasparenza politica non ha bisogno di attraversare uno spazio fisico, sobbarcandosi fatiche di livello mitologico, per varcare l’ingresso del New York Times. Attraverso la posta elettronica, i blog, you tube, twitter, facebook, e altro ancora, egli può comunicare con numeri altissimi di utenti, di tutti i continenti. Al «Condor» di oggi può bastare una banale connessione in rete per raggiungere con efficacia il suo scopo, mentre mette in discussione la verticalità del processo informativo. La deliberazione ultima non è demandata a un giornale, a un editore, dietro i quali può celarsi, appunto, un potere interessato. Viene assunta bensì, in tempi celerissimi, da un soggetto collettivo, che può finire con il coincidere in tutto e per tutto con l’opinione pubblica di un paese, o di un continente. E Wikileaks propone di questo modello il livello più radicale, raccogliendo informazioni top segret da ovunque per riversarle sull’intero pianeta. Parafrasando il Bogart de L’ultima minaccia, si può dire, con delle ragioni, «È il web, bellezza!», mentre va facendosi sempre più serrata la dialettica tra media vecchi e nuovi, fatta di sinergie e scambi costruttivi, ma pure di tensioni. Wikileaks ne offre ancora un saggio, prima con gli accordi siglati con il New York Times, il Guardian di Londra, il Pais spagnolo e lo Spiegel tedesco, poi con la clamorosa rottura. Alla fine, come è noto, ha deciso di trasferire centinaia di migliaia di documenti segreti in rete senza filtri di sorta. Ma un simile radicalismo, nel segno di una mitica trasparenza assoluta, è ancora coerente con un progetto di democrazia sostanziale o rischia contraccolpi pregiudizievoli alla stessa democrazia? È una questione aperta.

Il caso italiano, infine. Diversamente da altre realtà dell’Occidente, questo paese ha scoperto il web con qualche ritardo. Agli inizi, negli ultimi anni novanta, si è trattato soprattutto di un affare economico, condotto in modo strategico dagli ambiti della telefonia, allora in pieno exploit. Poi, intorno al Duemila, saggiate le facoltà del nuovo strumento, la scena è andata movimentandosi, tanto più quando si è compreso che il web poteva essere usato come acceleratore dei processi di aggregazione civile e politica. In questo decennio più di altri ne hanno beneficiato, non per caso, i movimenti di opposizione: agli esordi del decennio, i girotondi di Moretti, poi il partito di Antonio Di Pietro e il movimento di Beppe Grillo; più di recente, con il supporto di Facebook, le reti del Popolo Viola e gli indignados. Pure in Italia il web che più provoca timori è comunque quello che si profila all’orizzonte, di cui i blog e le testate on-line, come altrove, hanno offerto finora solo dei trailer.

La Repubblica si porta dietro una lunga vicenda di trame, animata da ambienti politici di fede atlantica, servizi segreti «deviati», alti gradi militari, terroristi, faccendieri, mafie. Ne è uscito un blob di segreti che, di delitto in delitto, di strage in strage, ha finito per condizionare fino al paradosso la vita del paese. Come in Turchia, resiste uno Stato profondo che impedisce nei tribunali la ricerca della responsabilità, mentre rimane in auge la dietrologia dei «misteri» che, polverizzando le piste investigative, aiuta in realtà a mantenerli e a moltiplicarli. In definitiva, diversamente da quanto è avvenuto in altre aree del globo, in America Latina per esempio, dove per Fujimori, Videla, Pinochet, Montesinos e numerosi altri è arrivata la stagione dei rendiconti, in Italia non si è mai aperta una reale discontinuità. Fa testo, al riguardo, il processo ad Andreotti. E il compromesso regge, in fin dei conti, in piena era berlusconiana. È sintomatico che un dirigente storico della sinistra italiana, Massimo D’Alema, pur non imputabile di tale Stato profondo, ma convinto forse, per ragioni di real politik, che i conti con il passato non costituiscano più una priorità, né una necessità, sia stato eletto con un voto ampio e bipartisan capo del Copasir, il comitato parlamentare di controllo dei servizi di sicurezza. A fare il resto sono poi le condizioni del paese nel presente: la corruzione pubblica dilagante, la collusione della politica e dei poteri finanziari con le holding criminali, la violenza continuata agli ambienti naturali e alle città.

Tutto questo può aiutare a comprendere allora, in Italia, la condizione del web che fa informazione. Ai trailer, ai reportage e alle analisi negli ultimi anni hanno cercato di forzare il muro del segreto, in tutte le sue declinazioni, si è risposto talvolta in modo goffo e secco, con l’oscuramento di siti, la condanna di giornalisti-blogger in sede civile e penale, l’applicazione di leggi desuete. Ma si è operato soprattutto in chiave strategica, con tentativi continui di introdurre nuove regole, più o meno dirette. Le normative sollecitate dall’Agcom, formalmente per la tutela del diritto d’autore, come il recente ddl che vorrebbe imporre l’obbligo di rettifica su semplice richiesta di parti che si ritengono offese sono un po’ la sintesi di questo lavorio. Ed è storia di oggi.

 
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Nicolas Giudici, vittima dimenticata

Il giornalista e saggista còrso è stato ucciso dieci anni fa, e subito è stato rimosso. Perché? Un caso che getta ombre sui poteri della Francia

 

di Carlo Ruta

 

Era il 16 giugno del 2001 quando Nicolas Giudici è stato assassinato nei pressi di Corte, nel nord della Corsica. Sono trascorsi dieci anni, ed è stato un anniversario triste, perché di fatto non è esistito, non ha evocato nulla, se non ai familiari, a pochi amici, a qualche collega del «Corse-Matin», con cui Giudici aveva a lungo collaborato. Sulla vicenda, sconosciuta in Italia e in altri paesi dell’Europa, la Francia, da Chirac a Sarkozy, ha tenuto un silenzio ostinato, che insiste ancora oggi. Essa ha deciso di non dare importanza alla morte di questo intellettuale sereno e documentato che aveva studiato i disagi profondi della terra in cui era nato. Il caso è stato posto sotto la luce di una faccenda isolata, locale, privata: copione noto nelle terre assoggettate al crimine politico e organizzato. Si direbbe che le istituzioni del Paese abbiano voluto evitare di rispondere alle domande che Nicolas aveva posto negli ultimi anni della sua vita, sulla condizione di degrado della Corsica, stretta dalla triplice morsa di un potere politico coercitivo e distante, dei clan criminali e dell’indipendentismo armato. Il caso potrebbe essere però più complesso. Le responsabilità, ancora più dolose.

 

Nato nel 1949 nel villaggio di Polveroso, in Alta Corsica, dopo aver studiato al liceo Marbeuf di Bastia e filosofia all’Università di Nizza, Nicolas Giudici aveva vissuto a Cannes. Avrebbe mantenuto tuttavia fino alla morte il contatto con l’isola, dove abitavano i suoi genitori e abitano ancora le sue sorelle Claire e Julie. Dopo una breve docenza universitaria in Filosofia, presso l’università di Cannes, aveva intrapreso il lavoro di cronista al «Corse-Matin». Lo avrebbe fatto per 22 anni di fila. Aveva deciso poi di ridurre questo impegno, per dedicarsi alla scrittura saggistica. Nel 1997 aveva dato alle stampe con Grasset di Parigi Le crépuscule des Corses, un raffinato lavoro di analisi, in bilico tra sociologia, antropologia e storia, sulle condizioni dell’isola. Il sottotitolo era Clientélisme, identité et vendetta. Con questo lavoro, egli denunciava tanto le ingiustizie del potere pubblico e l’assenza di una legalità autorevole, quanto i gruppi nazionalisti dell’isola, dilaniati da guerre intestine e disponibili, in alcuni casi, ad accordi con il milieu, la mafia della Corsica. «Il loro mito dell’indipendenza – scriveva ‑ non è autentico, perché nessuno in realtà crede in questo obiettivo fino in fondo. Si tratta solo di un velo che copre il vuoto della loro visione della società». Nicolas era stato ascoltato dalla Commissione parlamentare che si occupava della questione còrsa. E aveva continuato il suo lavoro. Nel 1998 aveva pubblicato per le Edizioni Milan Le problème corse, in cui, traendo spunto dal testo precedente, focalizzava ancora le cause dei disagi che colpiscono l’isola, nell’indifferenza dello Stato francese: altre pagine intense sulle faide tra le famiglie, i silenzi, il fratricidio, l’emarginazione, la legge arcaica del sangue. Poi l’uccisione, dopo che era uscito, ancora con Grasset, La philosophie du Mont Blanc, un tributo alla montagna, che era stata da sempre la sua passione.

 

Il corpo di Nicolas, ferito da proiettili calibro 6,35 al torace e all’addome, è stato trovato da un pastore alle ore 9 di domenica 17 giugno alla Fonte del Melo, nei pressi di Piedigriggio, lungo la strada che da Corte conduce a Bastia. Secondo la sorella Claire, che aveva incontrato il giornalista venerdì, durante la sera avrebbe dovuto raggiungere Nizza con il Corsica Express che partiva da Calvi. Per questo, intorno alle 17,15, un quarto d’ora dopo la conclusione di una riunione di studio universitaria cui aveva partecipato, egli aveva lasciato Corte, non si sa se in compagnia o da solo. L’uccisione era avvenuta di lì a poco, forse dopo una manciata di minuti, e intorno alle 19,30 la sua Fiat grigia veniva trovata in fiamme in un burrone a circa 40 chilometri dal luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere, in direzione est, nei pressi del villaggio di San Nicolao.

 

Sin da subito è stata esclusa la pista politica. «Nel suo libro – ha spiegato un inquirente – Giudici ha solo analizzato fenomeni della società dell'isola, senza chiamare in causa nessuno». I nazionalisti, dal canto loro, si sono affrettati a negare qualsiasi coinvolgimento. Al quotidiano «24Heures» del 18 giugno un dirigente del FNLC, uno dei maggiori gruppi indipendentisti, ha dichiarato che Nicolas «non era un nemico della Corsica». Gli inquirenti hanno escluso poi che si potesse trattare di un delitto di mafia, per due motivi fondamentali. Il primo è che la pistola usata per l’assassinio, di piccolo calibro, non è un’arma da killer professionisti. Il secondo è che il giornalista non aveva ricevuto minacce. Intervistata dal giornale «Corse Matin», la sorella diceva che aveva trovato Nicolas «sorridente, rilassato e pieno di progetti». E testimonianze analoghe venivano rese dai partecipanti al seminario dell’università di Corte. Il magistrato Gerard Egron-Reverseau, come hanno riportato i giornali già dal 18 giugno, ha battuto quindi la pista del delitto occasionale, compiuto da balordi. E su questa linea si è lavorato con zelo, per un anno intero, fino a quando la gendarmeria di Ajaccio è riuscita a trarre in arresto un teppista trentenne, Didier Sialelli, autore di numerose rapine a mano armata.

 

Secondo gl’investigatori, nel pomeriggio del 17 giugno, dopo aver imboccato la strada per Bastia, Nicolas Giudici si sarebbe fermato per la foratura di una gomma, e in quella circostanza avrebbe preso a bordo il Sialelli, per motivi ignoti. All’interno dell’auto di lì a poco sarebbe scoppiata una lite, che sarebbe culminata appunto con l’uccisione del giornalista. L’assassino a quel punto avrebbe scaricato il corpo della vittima nei pressi di Piedigriggio e, impadronitosi dell’auto, avrebbe svoltato ad est, verso Cervione, dove, dopo un incidente, avrebbe abbandonato il mezzo, dandogli fuoco. Gli investigatori hanno dedotto tutto questo da dati e reperti materiali, ma soprattutto dalla deposizione di una automobilista, che dallo specchio retrovisore avrebbe intravisto Sialelli nell’auto del giornalista. Si è tenuto conto poi di alcuni riscontri. Qualcuno ha dichiarato che Sialelli, subito dopo il delitto, aveva cambiato pettinatura e abbigliamento, per rendersi forse meno riconoscibile. La gendarmeria accertava, dal canto suo, che almeno in due casi di rapina Sialelli aveva usato una pistola di calibro 6,35.

 

Il seguito della storia è curioso. Arrestato nei primi di agosto del 2002, il presunto assassino dopo un anno di carcerazione è stato liberato, in attesa del processo, per la scadenza dei termini di custodia. Ma non ha avuto il tempo di godere di quella libertà perché di lì a poco è stato ucciso, per motivi sconosciuti. E con questo epilogo, il procedimento giudiziario sulla morte di Nicolas, che avrebbe dovuto ancora chiarire non pochi aspetti in ombra, non essendosi mai staccato peraltro dal terreno indiziario, si è fermato. Restava da definire, tra l’altro, il ruolo che avevano potuto giocare nella vicenda due persone, ancora di Ajaccio: Cédric Campana e la sua compagna Yannick Bridoux, arrestati quali presunti complici dell’uccisore. Da una conversazione al cellulare, intercettata, gli investigatori avevano accertato che il primo, reduce pure lui da una sequela di delitti contro il patrimonio, era «ben consapevole» di fatti connessi al delitto. Dopo l’uccisione del Sialelli essi uscivano tuttavia di scena perché la legge francese non permette la continuazione del procedimento penale se l’imputato principale è deceduto. «La morte di Nicolas – spiega Claire – a quel punto è come finita nel nulla. Non abbiamo saputo più niente». Perché allora lo studioso còrso è stato assassinato?

 

I familiari ritengono che il delitto non presenti retroscena significativi, in grado di invalidare le tesi degli inquirenti. Escludono, soprattutto, che possa essersi trattato di un intrigo politico. «Nicolas – dice ancora Claire – ha condotto una vita bella e grande. Ha avuto solo la sfortuna di incrociare sulla sua strada, per pura casualità, un balordo, che agiva probabilmente sotto l’effetto della droga». Qualcuno non esclude tuttavia la pista del delitto organizzato. Lo scrittore Marc Bonnant, che di recente ha dedicato alla Corsica dei clan un intenso romanzo, Cunsigliu, sin dagli inizi è stato scettico sugli orientamenti dell’inchiesta ufficiale. Nel 2008, dopo aver rievocato sul suo blog la figura di Nicolas, in un articolo intitolato significativamente Acqua in bocca, ha ipotizzato un delitto pianificato, ponendo a se stesso e ai lettori una domanda forte: «Chi ha avuto interesse a far tacere Giudici?». E rimane di questo convincimento. «È sorprendente ‑ afferma oggi ‑ che un crimine compiuto da un balordo abbia lasciato così pochi indizi e testimoni. L’ipotesi di un delitto premeditato è più realistica».

 

L’impegno di studio di Nicolas non è stato ininfluente. Lo stesso Procuratore Generale di Ajaccio, Bernard Legras, intervistato nel settembre 1998 dal «Nice-Matin», ha definito Le crépuscule des Corses «un libro illuminante, che dovrebbe diventare una lettura d’obbligo per chi arriva nell’isola per la prima volta». E tanto più quelle denunce possono aver destato preoccupazione dopo l‘assassinio del prefetto Claude Érignac, avvenuto il 6 febbraio 1998 ad Ajaccio, quando lo scrittore, con il rigore consueto, ha ribadito da diverse sedi, pure televisive, la deriva dei nazionalisti e la loro penetrazione nelle città, oltre che nella stessa università di Corte. Ne sono potuti derivare a quel punto seri risentimenti. Ciò malgrado, la pista dell’indipendentismo armato resta inverosimile. La presa di posizione pubblica dei nazionalisti dopo il delitto rivela un atteggiamento coerente e perfino un rispetto di fondo, nei riguardi di un intellettuale che, alla luce di tutto, per nessuna ragione e in nome di nessuna causa poteva essere presentato come nemico della propria terra. Spunti interessanti presenta invece la pista che riconduce al caso Kamal, la quale, evocata da Marc Monnant nell’articolo citato, solo agli inizi è stata presa in considerazione dai funzionari della gendarmeria. Poco prima della morte, Nicolas aveva presentato alla casa editrice Grasset un memoriale di Karim Kamal, noto in Francia per aver scoperchiato un affaire di prostituzione minorile nella Costa Azzurra, cui avrebbero partecipato alti funzionari di Stato. Quel memoriale sarebbe dovuto uscire di lì a poco. In realtà non è stato mai pubblicato.

 

Il caso di Nicolas Giudici rimane in definitiva aperto. E tale resta prima di tutto a livello morale. Il saggista còrso, ucciso a 52 anni, ha scritto una pagina esemplare nella storia civile della sua isola e in quella della Francia. La sua lezione ha lasciato tracce significative, nella ricerca socio-antropologica sull’isola della bellezza e nel vivo del Paese. Gli studenti, spiega la sorella Claire, ricercano ancora nei suoi scritti gli spunti per comprendere l’evoluzione della questione còrsa nel secondo Novecento. Si tratta tuttavia di una storia offesa, prima di tutto dai silenzi del Paese pubblico. Nicolas ha denunciato il male oscuro della sua terra, senza rimuovere però i torti antichi della Francia. Ha fatto tutto questo con intensità, ma anche con rispetto e perfino con soavità. L’esito è che ancora negli anni di Sarkozy la sua vicenda suscita disagi e timori. È importante e giusto, allora, che le società civili ne onorino la memoria.

 

Fonte: Narcomafie, 7 ottobre 2011

 
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